Una guerra, cinquant’anni e un disperato bisogno di pace

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Sono trascorsi cinquant’anni ma siamo rimasti lì, prigionieri di una barbarie senza fine che da mezzo secolo ci tiene intrappolati nelle sue spire. La Guerra dei Sei giorni che vide contrapposto lo Stato israeliano e la coalizione araba composta da Egitto, Siria e Giordania, infatti, ha segnato uno spartiacque fra un prima e un dopo, destabilizzando non solo l’intera regione mediorientale ma l’assetto globale nel suo insieme, dando il là ad un processo di radicalizzazione che oggi sembra aver raggiunto l’apice.
Un conflitto risolto, sostanzialmente, in tre ore, grazie all’abilità del ministro della Difesa, Moshe Dayan, alla saggezza del capo di Stato maggiore, Yitzhak Rabin, e alla capacità di guida e di coordinamento del primo ministro, Levi Eshkol, con gran parte degli intellettuali mondiali che oggi si schierano abitualmente dalla parte dei palestinesi schierati convintamente a favore di Israele: questa è stata, in sostanza, la suddetta guerra.
Il punto è che questo conflitto altro non fu che uno dei tanti passaggi della Guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica, con l’URSS desiderosa di mettere in ginocchio uno storico alleato dell’America e, pertanto, pronta sia a manovrare con spregiudicatezza i rapporti fra Siria ed Egitto sia ad indurre Nasser a commettere un colossale errore come quello di annunciare, il 22 maggio del ’67, il blocco navale allo stretto di Tiran, sul golfo di Aqaba, dove si affacciava il porto israeliano di Eilath, snodo essenziale per gli approvvigionamenti petroliferi di Tel Aviv.
Si parla spesso, oggi, di un ritorno di Israele entro i confini del ’67, ripartendo con saggezza i sessantottomila chilometri quadrati che esso conquistò in seguito a quella guerra e agevolando così la convivenza con lo Stato di Palestina che, giustamente, chiede il pieno riconoscimento a livello internazionale.

Se ne parla spesso ma tutti gli osservatori internazionali sanno che non sarà affatto semplice raggiungere quest’obiettivo, in quanto non esiste più né la possibilità di dar vita ad un governo di unità nazionale israeliano, sul modello di quello varato dal laburista Eshkol insieme al conservatore Menachem Begin, leader del Likud di cui, peraltro, ricorre il venticinquesimo anniversario della scomparsa, né la possibilità di avere interlocutori assennati come il presidente egiziano al-Sadat, protagonista, proprio con Begin, degli accordi di pace di Camp David del ’78 (presidenza Carter).
Come disse, a suo tempo, il saggio Eshkol: “Abbiamo ricevuto una buona dote, purtroppo accompagnata da una sposa che non ci piace”.
Da allora, infatti, e questo il leader laburista lo aveva capito prima e meglio di altri, Israele è rimasta prigioniera di se stessa, dei propri incubi, della furia dell’estremismo palestinese che vede nel terrorismo e nella guerriglia le uniche armi per difendersi e, infine, della propria stessa discesa verso gli inferi del fondamentalismo, di cui l’attuale governo Netanyahu costituisce la massima espressione, resa ancor più acuta dalla folle idea di Trump di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv alla città santa di Gerusalemme, sacra per tre religioni, dunque inviolabile.
Da quei giorni di giugno di cinquant’anni fa, nulla è stato più come prima: la Guerra dello Yom Kippur del ’73, le varie Intifada palestinesi, la drammatica uccisione di Rabin ad opera di un estremista israeliano, la morte in circostanze sospette di Arafat e un’infinita serie di eventi che hanno reso il confronto pressoché impossibile, al punto che ormai siamo di fronte ad uno Stato intrappolato dalla propria potenza, dai propri mezzi militari e dall’abisso di odio che ha suscitato e subito nel corso dei decenni.
Questa è la maledizione di quei sei giorni che hanno sconvolto per sempre la storia del mondo e che ancora oggi rendono impossibile ogni tentativo, compresi i più sinceri e meritevoli, di procedere lungo il sentiero della pace e dell’incontro fra i popoli.


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