Cento anni esatti dalla nascita di Maurice Duverger: politologo francese che nell’89 venne candidato al Parlamento europeo nelle file del PCI, dopo aver teorizzato, a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, la correlazione fra sistema maggioritario e conformazione bipartitica, o quanto meno bipolare, dell’assetto politico.
Un grande studioso, un appassionato, un uomo dotato di un amore per la cosa pubblica e di un senso dello Stato fuori dal comune, capace di coniugare cultura, competenza e profondità d’analisi con il consenso necessario per essere eletto alle Europee e contribuire, in prima persona, all’evoluzione e al miglioramento del sistema nel suo insieme.
Sostenitore del referendum costituzionale di De Gaulle e del modello della Quinta Repubblica, dopo aver sistematicamente criticato le fragilità e l’irresolutezza della Quarta, non c’è dubbio che Duverger appartenesse ad una scuola di pensiero differente rispetto a quanti, come me, prediligono il sistema proporzionale, il multipartitismo e la dialettica tra forze politiche in conflitto ma in grado di aggregarsi in Parlamento e di fare fronte comune al cospetto delle sfide epocali del proprio tempo.
Non c’è dubbio, tuttavia, che questo studioso scomparso all’età di novantasette anni, il quale ha in buona parte ispirato, ad esempio, la legge tuttora in vigore per l’elezione dei sindaci e dei presidenti di regione, avesse una sua concezione dello Stato, una sua visione del mondo e una sua precisa identità politica assolutamente rispettabili, compresi i punti su cui si era in dissenso o in cui si intravedevano addirittura dei rischi per la tenuta democratica di un Paese complesso e di frontiera come il nostro.
Un analista in buona fede, dunque, un protagonista del Ventesimo secolo, una personalità forte della politologia mondiale e, infine, e non è poco, un oppositore di ogni forma di barbarie.
Se ne è andato nel 2014, lasciandoci in eredità la forza delle sue idee e l’utilità del suo pensiero. Da allora, il nostro microcosmo di addetti ai lavori è sicuramente più povero, anche perché lui è stato molto, molto di più.