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L’orrore di Manchester, gli orrori ignoti, ignorati

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Su “Avvenire”, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana che andrebbe letto non solo dai cattolici praticanti, ma anche (soprattutto?) dai laici (con venature anticlericali, anche; perché no?). Perché questo giornale ha il grande pregio di illuminare spesso realtà e questioni che spesso vengono lasciate in ombra. Con un suo commentatore, Fulvio Scaglione, “Avvenire” pone in luce un paio di problematiche su cui converrebbe prestare attenzione, e spendere qualche riflessione. La prima: “Dietro ogni kamikaze ci sono migliaia di giovani che l’industria della predicazione estremista cerca senza sosta di indottrinare e arruolare in ogni parte del mondo”.

Ecco, questa incontestabile e semplice osservazione, va al di là della questione se i tanti attentati sono frutto e risultato di cosiddetti “lupi solitari” o il risultato di network di terroristi come le filiere franco-belga. Perché al di là e al di sopra dei singoli autori, c’è appunto “L’industria della predicazione estremista” che indottrina e arruola. Questo è il problema; l’autore della strage è il sintomo. E’ però la malattia che ci deve inquietare e va compresa, inquadrata, analizzata. Il fatto che il terrorismo sempre più è strumento di lotta, perseguimento e tutela di interessi molto concreti e molto poco fanatici: di stati e di potentati che vanno al di là dei confini e delle frontiere.

Von Clausewitz, nel suo celebre trattato “Della guerra”, ci ricorda che i conflitti non sono che “la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”.

Definizione che possiamo benissimo attualizzare: “Il terrorismo non è che la continuazione della politica (e il perseguimento di interessi) con altri mezzi”, e si seguito il resto.     

Scaglione ha il merito di ricordarci (e massimamente a noi che ci occupiamo di informazione) che il terrorismo colpisce a “Londra come a Orlando (Florida), a Berlino come a Dacca, la capitale del Bangladesh…L’altra idea da recuperare davanti al massacro della Manchester Arena è che dobbiamo assolutamente fermare questa continua strage di giovanissimi e bambini. L’Europa resterà a lungo sotto lo choc di quanto è accaduto al concerto, ma molti non si renderanno conto che drammi come questo sono realtà quasi quotidiana per tanti popoli nemmeno tanto lontani da noi. In Siria, racconta l’Unicef, l’anno scorso sono stati uccisi almeno 652 bambini e altri 850 sono stati impiegati nei combattimenti. In Afghanistan, secondo le Nazioni Unite, ogni settimana 53 bambini vengono uccisi o feriti. In Iraq, nel 2016, su oltre 16.300 vittime civili, oltre 800 (più del 12 per cento) erano bambini, come testimonia Iraq Body Count. È la strage degli innocenti su scala industriale, in una quasi generale mancanza di reazioni emotive che sa di assuefazione”.

Ecco: oltre all’orribile strage degli innocenti consumata a Manchester, tante altre analoghe, se ne consumano, ignote e ignorate, ogni giorno: in Siria, in Afghanistan, in tanti altri disastrati paesi, sempre a opera dell’estremismo terrorista islamista. Non solo colpiscono gli “occidentali”, i “crociati, ma anche tra i musulmani stessi. Servirebbe a noi, per prendere consapevolezza della dimensione globale del fenomeno; servirebbe anche ai tanti musulmani che non sono preda dell’estremismo islamico, e ne sono anzi vittime: in Italia, in Occidente, e nei loro paesi d’origine: piangere i loro figli, i loro bambini massacrati dal terrorismo, li farebbe forse sentire meno soli nella loro tragedia; giustamente chiediamo a loro di dissociarsi e condannare i terroristi che in nome del loro dio uccidono e massacrano; la nostra richiesta sarebbe più efficace, credibile, fondata, se anche noi, ogni volta, quando sono i loro figli a morire, piangessimo i loro, come oggi piangiamo i nostri. Quasi mai accade, purtroppo. E’ ora di cambiare: ai massacri che si consumano in paesi lontani dobbiamo imparare a prestare la stessa attenzione che riserviamo a quelli che si consumano qui, “a casa nostra”.


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