Quello approvato a stragrande, entusiasta maggioranza, la scorsa settimana dal Senato è un brutto testo che non colma né giustifica il ritardo di oltre 28 anni maturato dal parlamento italiano rispetto all’obbligo di introdurre nel codice penale il reato di tortura.
Il testo che ora va alla Camera è figlio di quell’azione della politica che dal 1988 condiziona il dibattito sulla tortura e che ha per obiettivo non tanto quello di adempiere a un obbligo internazionale quanto piuttosto quello di non fare, o non dare l’impressione di voler fare, qualcosa contro le forze di polizia. Alla Camera, in prima lettura, si era persino scelto di considerare la tortura un reato comune, prevedendo l’aggravante se commesso da pubblico ufficiale. Una scelta di per sé non incompatibile con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (ratificata dall’Italia per l’appunto nel 1998) ma che metteva in evidenza quale fosse la reale esigenza del parlamento.
Il legislatore italiano avrebbe dovuto agire in modo molto semplice: tradurre la definizione internazionale di tortura (quella contenuta nell’articolo 1 della Convenzione) e farne legge dello stato. Salvaguardando, oltre che la precisione e la coerenza della definizione, anche il carattere d’imprescrittibilità del reato.
Invece, in queste legislature, sistematicamente i promotori di un testo di legge aderente al diritto internazionale si sono visti via via stravolgere la proposta: allungando, dilatando, annacquando la definizione giuridica, introducendo il famigerato elemento della ripetizione della tortura perché sia considerata tale, limitando inaccettabilmente il concetto della moderna forma di tortura, quella mentale.
Risultato: un testo impresentabile, di complicatissima attuazione pratica. Un testo che deriva da quel’equivoco originario, nient’affatto innocente, che ci portiamo appresso da quasi 30 anni: se c’è bisogno della legge sulla tortura significa che “la polizia tortura”. Tutta la polizia. Cosa ovviamente falsa. Ma è paradossalmente proprio l’assenza di una norma in grado di prevenire e punire i singoli comportamenti criminali di pubblici ufficiali a consentire di poter dire che oggi, in servizio e impunito, c’è qualcuno che la tortura l’ha commessa.