La recentissima sentenza della Cassazione – che obbliga lo straniero a conformarsi ai valori del paese ospitante – ha suscitato molte polemiche. Spesso basate su la confusione dei piani logici di riflessione. Così, per l’immigrato indiano di religione sikh – che pretendeva di andare in giro con un coltello sacro di 20 centimetri – si sono scomodati i valori, quando bastava citare le leggi vigenti sulla tutela della sicurezza.
Eppure, nonostante la reazione di molti commentatori, io condivido la ratio della sentenza.
E ricordo a chi contesta che allora dovremmo chiarire chi decide quali siano i “valori cogenti”, che questi sono solennemente proclamati dalla Costituzione.
Per esempio, il padre non può imporre alla figlia un matrimonio combinato, anche se perfettamente accettato nella propria cultura di origine, tanto meno con la violenza, perché il diritto inviolabile della libertà della persona lo afferma la Costituzione. Discorso analogo per il velo islamico, anche se il caso è più complesso, perché implica un’accusa implicita alle donne scoperte di “fascino doloso” per confondere agli uomini; e verso questi ultimi, di incapacità di autocontrollo erotico per l’eccitazione dovuta alla vista dei capelli. Nei paesi occidentali queste concezioni sono entrambe assurde. Ma qui entra in gioco la preferibile pazienza costruttiva della pedagogia della dignità, rispetto alla brutalità controproducente del divieto.
Insomma, non solo chi viene nel nostro Paese deve conformarsi ai nostri valori, ma solo se lo fa collabora alla propria integrazione. Senza per questo dover rinunciare al suo patrimonio tradizionale, che diventa un arricchimento per una vitale biodiversità sociale.
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