“Processo alla tappa” –la storica trasmissione- accompagna il Giro d’Italia, con la direzione di Alessandra De Stefano, attenta soprattutto alla cifra tecnica della maratona ciclistica. Della gara scrive su il manifesto con competenza e linguaggio colto Tommaso Nencioni, e qui non ci si vuole esercitare sulla disamina sportiva, cosa seria, come ci ammoniva Oliviero Beha. In verità, la trasmissione è stata una pietra miliare nella storia della televisione: italiana e non solo. Quando Sergio Zavoli iniziò a condurre il “Processo” nel 1962 forse non immaginava neanche lui che avrebbe dato luogo ad una trasmissione cult, ad una vera cerimonia mediatica. Anzi. Senza quell’incipit, il talk, genere ormai logoro ma pur sempre protagonista dei palinsesti, non avrebbe assunto le caratteristiche un po’ ibride di spettacolo e informazione che lo connota. Infatti, per il salotto ambulante animato dalle capacità cronistiche e dai virtuosismi stilistici di Zavoli, il Giro era solo un’occasione retorica.
Il contenitore pomeridiano parlava dello sport forse più faticoso e popolare come metafora del paese. Andava in onda una sorta di autobiografia della nazione, quasi un romanzo di formazione. E un pubblico enorme si affollava a casa e nei bar, a mo’ di “Lascia o raddoppia”, toccando vette di ascolto empiricamente (non esistevano ancora le rilevazioni Auditel) stimate in sette/otto milioni di utenti. Questi ultimi erano attratti dal contesto di consumo, prima ancora che dal testo tecnico: classifiche, vincitori e vinti, squadre e campioni. Per contesto si intende un palcoscenico capace di dare voce ai numi tutelari del giornalismo, da Montanelli a Bocca a Biagi a Ormezzano a Brera a Raschi, a voci scomode come Pasolini (famoso il battibecco con Vittorio Adorni), come pure ai volti dell’Italia profonda che pedalavano per sé e per i loro tifosi: per una volta meno sudditi. Gregari che diventavano capitani grazie alle telecamere e alla voce di Zavoli, vere e proprie maschere di una commedia agrodolce che riconosceva la gioia faticosa della pedalata: Taccone, Zandegù, il fuggitivo eroico e sfortunato Lucillo Lievore intervistato in tempo reale, tanti nomi “minori” che lo schermo portava per qualche giorno al livello dei capi di successo. Da Adorni a Gimondi a Motta ad Anquetil a Van Looy al “cannibale” Merckx che poco amava il “Processo” considerandosi probabilmente il sovrano assoluto. Interviste, discussioni, litigate in diretta su argomenti che andavano oltre la bicicletta, e raccontavano i valori e i limiti del fin troppo mitizzato “boom” degli anni sessanta. Il ciclismo come riscatto da sudditanze e povertà; sport ancora basico, portato nell’olimpo dell’immaginario dalla leggenda di Coppi e Bartali. Quel format ha fatto scuola, disegnando un modulo mediano tra cultura alta e letteratura popolare, tra evento e fiction realistica. Dietro le quinte un apparato tecnico di avanguardia, che introdusse la moviola, l’ampex, la telecamera mobile, l’organizzazione meticolosa dei collegamenti. Il Centro di ricerche della Rai di Torino era, del resto, un’eccellenza mondiale, dove imparavano americani e giapponesi.
Il “Processo”, durato dal ’62 alla fine del decennio, riprese nel ’76, poi cambiò nome, per essere ancora qui, di nuovo con il brand originario. Certamente, l’offerta dei canali è amplissima, niente a che vedere con l’antica scarsità del monopolio. Gli ascolti oscillano attorno al milione, con punte anche maggiori, per un 10% di share. Insomma, neanche male, data la parabola dei talk.