Generazione perduta, se i padri si sono mangiati i diritti dei figli

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“Non la pagheremo noi la vostra crisi” o “noi la vostra crisi non la paghiamo”. Anni fa ricordo manifestavamo ai cortei studenteschi scandendo spesso questi slogan, mi ritornano in mente mentre passeggio per Roma pensando al futuro. Quegli anni erano forse solo l’inizio della crisi che doveva ancora manifestarsi in tutta la sua gravità.

A distanza di tempo posso dire che noi la “loro” crisi l’abbiamo pagata, la stiamo pagando tutta e speriamo a un certo punto di non continuarla a pagare in eterno sulle nostre spalle, in gran parte. Resilienti sì, oltre i confini anche, entusiasti e non vittimisti, certo dobbiamo esserlo ed è giusto così in un mondo in continua evoluzione e in un’Europa che finché ce lo permettono ha aperto i confini e dimezzato le distanze. Ma dall’altra deve esserci come risposta un patto tra generazioni vero. Non una guerra e competizione continua tra giovane alle prime armi e lavoratore più maturo, piuttosto un confronto tra esperienza e freschezza, innovazione e tradizione.

“Non c’è posto, lascia perdere, c’è la crisi e questo poi è un settore ancora più in crisi degli altri, non puoi farcela, credimi”. Quante volte queste frasi i ragazzi, o come si ama definirli ultimamente i “millenials”, si sentono dire e sarà sicuramente vero che non c’è posto, ma come fa a non risultare un problema enorme da risolvere urgentemente il fatto che non ci sia spazio per giovani e quindi per l’innovazione di un Paese che altrimenti rimane fermo accartocciato su se stesso?

Se lo spazio non c’è, in qualche modo lo si deve creare. E in fretta, di tempo ne è passato tanto. Non è solo una questione di giustizia sociale, è un problema per la salute del Paese troppe volte sottovalutato e che rischia di farlo rimanere indietro rispetto agli altri stati Ue . Se non c’è lavoro, allo stesso modo non possono esserci divari generazionali così elevati: non può esistere un dipendente super garantito all’interno della stessa categoria professionale con stipendi o pensioni d’oro e uno che o non riesce ad entrare nel mercato del lavoro o è sottopagato o non è retribuito. Ancora peggio quando viene chiesto di lavorare gratis per fare esperienza, quest’esperienza che non basta mai, parrebbe. Perché a questo punto nonostante la crisi sia reale, può apparire un po’ una presa in giro, uno schiaffo a un’intera generazione, un’umiliazione ai sacrifici che tutti cerchiamo di fare in questi anni, ma dai quali alcuni privilegiati rimangono esclusi. D’accordo siamo una generazione flessibile, disposta a cambiare lavoro e a farne più di uno, ma flessibilità non significa precarietà infinita come è stata tradotta in Italia in questi anni. La flessibilità deve andare di pari passo con la crescita del lavoro, perché se non si crea occupazione, o anche quello “spazio” di cui sopra almeno attraverso un minimo di solidarietà generazionale, la flessibilità non ha senso, o appunto per l’Italia sarebbe meglio chiamarla con un nome più autentico: precarietà.

“Ragazzi contiamoci, quanti di noi seduti a questo tavolo hanno lasciato Roma o stanno per farlo?” così un amico a una cena di ritrovo nella capitale nei giorni di Pasqua. Ci guardiamo e ci contiamo, non si sa chi effettivamente rimarrà o chi tornerà. Solo nel 2015 sono emigrati dall’Italia 27mila diplomati e 24mila laureati per trasferirsi all’estero, secondo i dati raccolti dal Centro Studi Idos. Il problema non è che i giovani se ne vadano, si muovano o trasferiscano, tornino o non tornino per scelta, ma il fatto che Roma (e anche l’Italia) non attrae allo stesso modo un numero eguale di giovani da fuori pronti a trasferirsi, che non ci sia uno scambio, alcuni se ne vanno ma altri arrivano, così la vedono i trentenni. È un panorama che rattrista. La partenza deve rimanere una scelta, non un obbligo come quando qualcuno dice “Non tornare”, perché allora c’è qualcosa che non va se non si è nella condizione di scegliere.

Il nostro paese non riesce ad offrire condizioni di lavoro adeguate agli sforzi e ai livelli di istruzione conseguiti: i lavoratori sovra-istruiti rispetto alle mansioni che svolgono sono il 20% degli italiani e il 40% degli stranieri, riporta la ricerca del Centro Studi Idos sulle migrazioni qualificate. Si stima che oltre 400mila laureati abbiano lasciato l’Italia, non tutti sono registrati all’Aire ed è quindi difficile avere un dato preciso, mentre i laureati stranieri in Italia sono 500mila, la loro incidenza è pari al 7% rispetto ai laureati residenti in Italia.

Le offerte di lavoro, cercando sul territorio romano, si intravedono solo con il lumicino e di certo se sono già poco attraenti per i ragazzi locali sicuramente non lo sono per chi viene da fuori. E così, a meno che non si partecipi a un concorso pubblico di quelli con 4 posti per 10.000 concorrenti, è un’impresa assai ardua trovare in quella che per molti è la città più bella del mondo, non solo un lavoro, ma anche una collaborazione a tempo. Le aziende, come Sky recentemente, scelgono, se possono, di trasferirsi al Nord o chiudono. I negozi artigiani a colpo d’occhio per le strade romane sono sempre meno, così come le vinerie, le osterie tipiche romane, i “negozi di un tempo”. Tutti in fretta sostituiti da catene o negozi che a volte hanno più l’aria di copertura per riciclaggio che altro. Si sorride quando si intravede la possibilità di un contratto di pochi mesi. Poi però l’angoscia torna, la disperazione crea nervosismo e litigi.

Intanto seduto a tavola c’è un ragazzo che ha vinto alla lotteria la green card per gli USA che permette di vivere, studiare e lavorare in America portandosi la famiglia, come residente permanente. Il sorriso torna, la speranza di trovare lavoro pure e così un volo e via. Ci rivediamo alle prossime feste con chi sta nel Nord Italia, chi in un altro paese Ue, chi in un altro continente. Speriamo alla prossima cena di incontrare qualcuno che ha scelto di trasferirsi a Roma dall’estero, e anche nel resto d’Italia.  Per ora: buon viaggio!


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