Guai agli artisti che smettono di prendere l’autobus, diceva a un dipresso tal Cesare Zavattini. Volendo dire che se smetti di interessarti al mondo com’è, fatto di persone oscure che fanno lavori modesti pagati poco, come artista perdi la rotta. Di registi che “prendono l’autobus” ne girano pochi, da noi in Europa i portabandiera come Ken Loach e i fratelli Dardenne ogni tanto vincono perfino la Palma d’Oro a Cannes. Ma penso anche, per dire, a low budget recenti come “La loi du marché” o “Manchester by the sea”. Francesi, inglesi, belgi, americani…
Qui in Italia sembra un miracolo quando qualcuno non si rassegna alla patetica regola nostrana del “non ci resta che ridere”, al diktat della commedia, e ha voglia invece di scrivere e girare un film su una cameriera di bar che ogni giorno si spara quattro ore di mezzi pubblici, andata e ritorno, per 800 euro al mese. Con “Sole, Cuore, Amore” Daniele Vicari ha fatto un film militante, che non significa affatto ideologico. Militante come lo era il migliore cinema neorealista, cioè nuovo nella forma e forte nei contenuti. Spesso lo spettatore distratto confonde il cinema serio col cinema triste. “Sole, Cuore, Amore” è caldo, allegro, solare, visivamente bellissimo. E la Eli di Isabella Ragonese è una persona di cui ti innamori perdutamente, ma se ci pensi bene ne conosci tante così, se hai voglia e tempo di guardarle e di pensare alla loro vita. Un’esistenza fatta di quelli che Grace Paley, con geniale understatement, chiamava “piccoli contrattempi del vivere”.
La faccio breve: Eli una sera crolla per la stanchezza e al pronto soccorso salta fuori un malanno di cuore. Dovrebbe riposare, fare analisi, ma se chiede permessi perde il lavoro. Quando finalmente il marito le fissa una visita cardiologica d’autorità, si offre di sostituire la collega araba che studia e perderebbe un esame. Il padrone del bar non è un negriero, è che se lavori, oggi, ovunque funziona così. Baratti i tuoi diritti per qualche spicciolo, indispensabile, in più.
Vicari, che non vuole imitare né Loach né i Dardenne nella loro proverbiale asciuttezza, affianca a quella di Eli la “vita parallela” della sua vicina Vale, povera in canna anche lei, che danza come animatrice nelle discoteche, faute de mieux. Ma la danza non è un elemento estetizzante, è una traduzione emotiva, una sorta di coro greco. E serve a dire la proletarizzazione, il precariato nuovo di chi si ribella alla vita del salariato, al posto fisso, per cercare di esprimersi, ma ugualmente senza sbocchi. Vicari, che insegna alla scuola “Gian Maria Volonté”, conosce bene l’esercito dei precari del cinema, da industria romana di punta a fabbrica di disoccupati. La vita “media” (oggi in zona miseria) dei più, che non bazzicano mafie, droga, morti ammazzati e pistole, nel nostro cinema interessa ben pochi. Ma è là che mantiene radici forti la solidarietà, il bisogno di darsi una mano. Cose importanti da raccontare.
A me stonava quel titolo, “Sole, cuore, amore”, in prestito dal tormentone canoro di Valeria Rossi del 2001. “È perché sono un proletario anch’io”, mi ha risposto Daniele Vicari. La scena che ha messo nel film, con la canzonetta popolare che fa lacrimare Eli la cameriera, l’ha vissuta davvero. Piccoli contrattempi del vivere. Il Diavolo è nei dettagli. A quanto pare, anche il suo opposto.