Come mai, a 80 anni esatti dalla sua scomparsa, la figura di Antonio Gramsci viene celebrata, ricordata e studiata in tutto il mondo? E perché si continua a ritenere la sua opera come un contributo fondante per la cultura politica della contemporaneità? Gramsci viene oggi celebrato e studiato non solo come antagonista irriducibile del fascismo, che lo volle in carcere e lì lo uccise; non solo come fondatore del Partito comunista d’Italia assieme a Bordiga, Terracini, Togliatti, Grieco, Camilla Ravera, e i giovani Longo, Secchia, Teresa Noce; ma anche come colui il quale – dagli scritti giovanili alle Tesi di Lione, dal saggio sulla questione meridionale ai Quaderni del carcere – ha dato un contributo enorme al marxismo novecentesco, e più in generale al pensiero critico contemporaneo.
Le categorie concettuali da lui elaborate costituiscono tuttora una bussola essenziale per orientarsi nel mondo: egemonia, come processo di apprendimento delle classi lavoratrici nel loro porsi e proporsi come nuove classi dirigenti della società e dello Stato; rivoluzione passiva, ossia il modello delle ristrutturazioni operate dalle classi dominanti con la costruzione del consenso dei dominati; intellettuale collettivo e moderno Principe, ossia lo strumento politico e organizzativo – il Partito in primo luogo – che i subalterni si danno per la trasformazione radicale degli assetti sociali.
“Questo miracolo dell’operaio che quotidianamente conquista la propria autonomia spirituale” – scriveva Gramsci nel 1920 – “lottando contro la stanchezza, contro la noia, contro la monotonia del gesto che tende a meccanizzare e quindi a uccidere la vita interiore, questo miracolo si organizza nel Partito comunista”. È qui che l’operaio “collabora ‘volontariamente’ alla attività del mondo […] pensa, prevede, ha una responsabilità […] è organizzatore oltre che organizzato”, e “sente di costruire un’avanguardia” che trascina con sé “tutta la massa popolare”[1]. Sono parole che ancora oggi emozionano e incoraggiano.
Fondamentale fu poi il lavoro, avviato da Gramsci nel 1924, teso a individuare le “forze motrici” della rivoluzione italiana: operai industriali e salariati agricoli del Centro-Nord e braccianti del Mezzogiorno. Oggi i settori sociali potenziali protagonisti del cambiamento non sono gli stessi, e tuttavia la lezione di metodo fornita da Gramsci rimane attuale, e implica un nuovo sforzo di analisi e di organizzazione.
Anche altre categorie centrali nel suo pensiero sono di estrema attualità: la dimensione molecolare dei processi di trasformazione, l’alternarsi di guerra di movimento e guerra di posizione, la complessità della lotta politica nei paesi a capitalismo avanzato, il ruolo decisivo della battaglia delle idee, la necessità di costruire una nuova intellettualità di massa e quella unità tra struttura e sovrastruttura, forze sociali e idee guida che rappresenta per Gramsci il blocco storico, nel quale – per dirla con Marx – “le idee diventano una forza materiale”.
Oggi naturalmente, rispetto ai tempi di Gramsci, molte cose sono cambiate e i legami tra politica e cultura si sono molto allentati. Tuttavia la riflessione del rivoluzionario sardo rimane di estrema attualità. “Non può esserci elaborazione di dirigenti – si legge nei Quaderni – dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti […]. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti”, “il giorno per giorno […] invece della politica seria”; ma anche “miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura”, sempre più staccata dalla realtà storica. In questo contesto, scrive Gramsci pensando alla Germania del primo dopoguerra, la burocrazia “sostituiva la gerarchia intellettuale e politica”[2]. Oggi basterebbe sostituire la parola “burocrazia” con “tecnocrazia” o “tecnostruttura” per avere un quadro abbastanza simile a quello descritto.
In un altro passo dei Quaderni Gramsci fa un altro ragionamento interessante: “A un certo punto della vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali”, che “non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe”. A quel punto la situazione “diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto […] all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici”, mentre si rafforza il “potere della burocrazia […] dell’alta finanza”. In questa che si configura come una vera e propria “crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso”, la classe dominante “muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo”; dunque “mantiene il potere, lo rafforza […] e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione”, i quadri politici. Ne deriva “il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico [ma possono essere anche due o tre, aggiungerei] che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe” dominante. Insomma, “non sempre [i partiti] sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche”, ma le conseguenze del loro disgregarsi sono molto pesanti[3].
Sono parole di grande attualità, che ci rimandano a quella idea di “crisi organica”, nella quale “il vecchio muore e il nuovo non può ancora nascere”, che per Gramsci però è anche tipica delle “fasi storiche di transizione”[4]. Ecco perché il pensiero del fondatore del comunismo italiano non solo è ancora fecondo, ma è anche uno strumento prezioso per chi vuole abolire lo stato di cose presente e contrastare la barbarie che avanza.
*giovane ricercatore dell’Istituto Gramsci
[1] [A. Gramsci], Il Partito comunista, “L’Ordine Nuovo”, 4 settembre e 9 ottobre 1920, in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti 1978, vol. II, pp. 151-152.
[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi 1975, pp. 387-388.
[3] Ivi, pp. 1603-1604.
[4] Ivi, p. 311.