Le sinistre si fanno forza e scommettono su se stesse. L’impresa è trovare uno spazio politico alla sinistra del Pd, il partito egemone del centro-sinistra italiano. Ci hanno provato e ci stanno provando in molti. Sergio Cofferati, Pippo Civati e Stefano Fassina hanno abbandonato il Pd di Matteo Renzi nel 2015. All’inizio del 2017 se ne sono andati Roberto Speranza, Enrico Rossi, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Si sono susseguite scissioni e abbandoni basati su due accuse centrali rivolte all’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Pd: la gestione personalistica dell’”uomo solo al comando” con la creazione del Pdr (Partito di Renzi) e “la deriva di destra”. Il progetto è di costruire una sinistra di governo, ma dalle scelte radicali. Bersani ha parlato di una sinistra larga, dialogante. ulivista e di “combattimento”. Nelle prossime elezioni comunali di giugno si avrà la verifica del consenso popolare. In molte città italiane la sfida per i sindaci dirà se esiste o no uno spazio alla sinistra del Pd. Finora le competizioni elettorali degli ultimi due anni nelle amministrative, regionali e comunali sono state deludenti per i tanti partiti e partitini di sinistra.
L’incubo è l’irrilevanza, la marginalità. I sondaggi elettorali non incoraggiano certo all’ottimismo. L’ultima rilevazione dell’Ixè su cosa farebbero gli italiani se si votasse adesso per le politiche, non sono confortanti. Il Movimento democratici e progressisti (Mdp) fondato da Bersani, Speranza, Rossi e D’Alema raccoglierebbe solo il 4,3% dei voti. Sinistra italiana (ex Sel ed ex Pd come Fassina), guidata da Nicola Fratonianni, prenderebbe appena il 2,6%. Le altre formazioni di sinistra il 2,2%. Poco, molto poco rispetto ai tre grandi antagonisti: il M5S incasserebbe il 28,7%, il Pd 26,6% e oltre il 30% un eventuale centrodestra ricompattato (Forza Italia, Lega Nord, Fratelli d’Italia). Sembra profilarsi la profezia di Bersani, quando a metà dello scorso dicembre invitava tutti ad evitare una scissione del Pd perché avrebbe rotto le ossa sia all’anima centrista sia a quella di sinistra del partito: «Ne sono sicuro. Perché la cosa di là, di origine democristiana, finisce come Kadima, cui pensò Rutelli. Quella di qua finisce per essere una sinistra minoritaria». La scissione della “Ditta”, come Bersani chiamava con affetto il Pd, invece c’è stata. La disfatta di Renzi al referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale del governo, ha aperto le porte alla rottura del Pd, il partito nato nel 2007 dalla fusione tra i centristi ex Dc e la sinistra post comunista.
Ora il tentativo è di voltare pagina, di costruire un centro-sinistra di governo competitivo con il Pd. La bussola sono i diritti e l’uguaglianza sociale. I campi d’azione sono soprattutto tre: lavoro, ambiente, immigrazione. E qui arrivano i problemi. I partiti e i partitini di sinistra sono tanti, divisi da ricette diverse. Alcuni sono dialoganti e altri alternativi al Pd (questo ora è impegnato nel congresso e Renzi dovrebbe riconquistare la segreteria).
Giuliano Pisapia, pur tra gli uomini più dialoganti con il Pd, chiede «una forte discontinuità nel metodo e nel merito» delle scelte politiche passate. Il fondatore di Campo progressista, ad esempio, punta il dito contro la sintonia di Renzi con l’amministratore della Fiat-Chrysler Marchionne e lo scontro con la Fiom di Landini: se il Pd «si definisce di sinistra deve avere come riferimento iniziale il lavoratore, e non il datore di lavoro, altrimenti non è sinistra». Ancora più netto è Speranza: il Mdp “vuole unire”. La critica è sempre a Renzi: «Vogliamo ricostruire un nuovo centrosinistra nel Paese, libero da smanie autoreferenziali».
Poi ci sono tutti gli altri partiti, partitini e micro partiti: Psi (Riccardo Nencini), Possibile (Pippo Civati), Rifondazione comunista (Paolo Ferrero), Partito comunista (Marco Rizzo). Inoltre ci sono i lavori in corso per il varo di altre formazioni politiche. È il caso di DemA, Democrazia e autonomia, fondata dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris (sta preparandosi per le elezioni regionali in Campania, per ora esclude di partecipare alle politiche).
I toni, in genere, sono durissimi, di contrapposizione al Pd. Fassina sollecita a prendere con passione un’altra strada rispetto a quella dell’ex sindaco di Firenze: «Lui il cuore ce l’ha messo ma batteva a destra». Il problema è “la sua subalternità” alle politiche della destra, liberiste in economia e plebiscitarie nelle istituzioni.
Sono pesanti anche le critiche di Civati. Il segretario di Possibile, alleato di una parte dei dissidenti cinquestelle, accusa: «Renzi ha riutilizzato le ricette della destra». Propone di varare «una Costituente delle idee prima del diluvio». Cita in modo poetico l’ex presidente americano Barack Obama: «Bisogna allacciarsi le scarpe e partire». Certo è difficile camminare insieme per tante sinistre così differenti e con ai piedi “scarpe” tanto diverse. Il rischio è una disastrosa frammentazione e l’irrilevanza. Per ora non si intravede nemmeno la convergenza su un programma sul quale contrapporsi o, invece, dialogare con Renzi, che ribadisce la bontà della linea di una sinistra moderna, non conservatrice, capace di affrontare l’innovazione e i nuovi problemi della società.
Poi c’è il macigno del M5S. Il movimento di Beppe Grillo, definito di centro da Bersani, rifiuta ogni vecchia catalogazione, nega di essere di destra o di sinistra. Ma con una politica di opposizione totale e anti sistema ha dato rappresentanza alla protesta di larghe fette di imprenditori, di ceto medio e di lavoratori colpiti dalla crisi economica. Con la proposta del reddito di cittadinanza pesca voti a sinistra, con lo stop all’immigrazione e all’euro raccoglie consensi a destra.
È complicato per le sinistre trovare spazio tra Renzi e Grillo. È ancora più difficile se restano divise, se non si uniscono, se non trovano un programma comune e un leader condiviso. La prima prova del fuoco ci sarà a giugno, nelle elezioni comunali.
Fonte: www.sfogliaroma.it