C’è un tema musicale che accompagna le immagini, e in certi momenti sembra perfino generarle per magia, ed è una dolcissima, struggente sonata dalle Stagioni di Tchaikovsky, “Giugno, La barcarola”. I contadini, nel Midi della Francia, raccolgono a colpi di falce poderosi fasci di lavanda che ammassano sui carri; i campi ne sono fioriti a vista d’occhio, sembra percepirne il profumo insieme al colore; l’estate è alle porte. Gabrielle, immobile, gli occhi persi nel cielo terso, è immersa nell’acqua del mare fino all’inguine e con una mano tiene rialzata la veste sul triangolo di piume a filo d’acqua. Subito dopo la vediamo che avanza di buon passo lungo una strada del piccolo paese in cui abita, entra nella biblioteca circolante per prendere in prestito un libro nuovo; in realtà cerca l’attenzione del bibliotecario, un maestro di scuola turbato dalla sua presenza, che si sforza di non raccoglierne le effusioni. La sera, alla festa del raccolto a cui accorre l’intera comunità, lei spia il momento in cui l’uomo si allontana dalla moglie incinta, lo raggiunge nella semioscurità al margine dell’aia per rimanere sola con lui. Ne è infatuata, ha bisogno di un contatto fisico; gli ha scritto una lettera rovente che lui le restituisce scappando, come se gli bruciasse in mano. Provocandone la reazione furiosa, incurante di sollevare uno scandalo.
La ragazza, Gabrielle, sta vivendo per così dire il suo estro, ne è intimamente travolta, in preda a una smania, a un’inquietudine d’amore che la induce a compiere azioni inammissibili. Più tardi, nella sua camera da letto, mentre gli operai agricoli indugiano a fumare e a bere seduti ai tavoli, si spoglia nuda, si alza in piedi su una sedia davanti alla finestra, e da dietro la tenda trasparente si offre in piena luce al loro sguardo eccitato, ai loro torbidi commenti. Poi torna a stendersi sul letto per immergersi di nuovo nella lettura del suo romanzo d’amore, in posa languorosa, eccitata al punto di leccare la firma del maestro apposta nella prima pagina del libro.
Gabrielle è ingovernabile, in casa parla solo con la sorella minore; quando la famiglia si riunisce a tavola per i pasti, preferisce prendere il suo piatto e mangiare da sola in piedi, appoggiata al canterano. E’ posseduta da una ossessione che non le lascia spazi. La madre la sottopone a una visita medica: dalle lastre risulta la presenza di minuscoli calcoli renali, il mal di pietre del titolo. Sarà necessario un trattamento medico; lo psichiatra, presente alla visita, pensa che sarebbero opportuni anche dei colloqui. Alla fine la donna, energica, saggia e sbrigativa, capisce che la figlia ha urgente bisogno di un marito. Lo individua in uno dei lavoranti, José, uno spagnolo rifugiato dalla dittatura di Francisco Franco; siamo negli anni Cinquanta, l’uomo è in cerca di sistemazione, e lei gli prospetta il matrimonio come soluzione; sebbene non possieda nulla, è un bravo muratore e la famiglia lo aiuterà a sviluppare la sua impresa. Vengono organizzate le nozze, con cerimonia in chiesa e abito bianco; Gabrielle chiarisce al futuro sposo che lei non lo amerà mai né ci andrà mai a letto. Concreto e di poche parole il giovane accetta, e intanto umilmente costruisce la nuova casa in cui andranno a vivere.
Il personaggio di Gabrielle è interpretato da Marion Cotillard, un’attrice dal talento superiore, forse la migliore che abbiamo in questo momento in Europa e tra le migliori al mondo. Il film, diretto da Nicole Garcia, ex attrice già cara alla Nouvelle Vague, è tratto da un romanzo di Milena Agus intitolato Mal de pierres, Male di pietre, una gentile locuzione per definire la patologia di cui soffre la protagonista. I genitori, facoltosi possidenti terrieri, utilizzano la malattia per ricoverare Gabrielle in una casa di cura sulle Alpi, un centro terapeutico in cui la giovane sposa viene sottoposta a trattamenti per i nervi, a cominciare da potenti getti di acqua gelida sul fondo schiena.
Nella clinica è ricoverato un ufficiale francese (Louis Garrel), un giovane tenente reduce dalla guerra d’Indocina. E’ malato, ferito gravemente a una gamba, assume l’oppio contro il dolore, passa quasi tutto il tempo a letto, a leggere o a scrivere; è figlio di un alto generale, le infermiere lo trattano con tutti i riguardi, l’attendente asiatico lo spinge a passeggio sulla sedia a rotelle, sempre elegantissimo. Durante i lunghi mesi della degenza, Gabrielle entra in contatto con lui, che ricambia la simpatia, le parla, le regala un libro. Lei ne rimane affascinata. Anche l’ufficiale, come il maestro bibliotecario, è un intellettuale, sa trovare le parole di cui lei ha bisogno per essere trasportata in quella dimensione diversa che vagheggia confusamente; così lontana dal mondo asfittico della sua famiglia e del marito semplice e devoto. José ogni tanto prende l’auto per andarla trovare e si arrampica lungo i tornanti che conducono al sanatorio; si accontenta di trascorrere insieme il tempo di un pranzo, purtroppo mai gratificante.
L’ufficiale si aggrava e un brutto giorno un’ambulanza viene a prelevarlo per condurlo d’urgenza in ospedale a Lione. La sua camera rimane vuota, il materasso riverso all’aria, sul davanzale della finestra. Lei corre a perdifiato dietro la vettura ma non riesce neppure a salutarlo. Intanto le stagioni si susseguono, è arrivato l’inverno, rigido a quelle altitudini e con la neve. Ma una mattina, inaspettatamente, il fascinoso tenente Sauvage riappare. E’ tornato per lei, per ricambiare il suo amore. Nel salone comune esegue con perizia al pianoforte La barcarola di Tchaikovsky, inebriandola, perché anche lei, sia pure da principiante, suona il piano. L’incontro è appassionato, insieme si chiudono in camera da letto a fare l’amore, come lei ha sognato durante la sua lunga assenza. Lui l’accarezza a lungo, indugiando sapientemente sul suo corpo, senza fretta, con le mani e con le labbra; le bacia i capezzoli, sfiora ogni centimetro della sua pelle, la possiede con dolcezza e vigore donandole un piacere inaudito, ripetuto, instancabile. La ragazza vi si abbandona come a un’estasi, ritrovando in pieno se stessa. Ma il tenente non può restare, l’hanno assegnato a un nuovo comando e deve assolutamente ripartire. Le promette però, solennemente, che appena sistemato tornerà a prenderla e vivranno insieme; malgrado lei sia già sposata, e un sacramento non andrebbe mai infranto, essendo un impegno preso di fronte a Dio. Anche Gabrielle dopo poche settimane lascia il nosocomio, torna a casa ormai guarita; sale in macchina con il marito che la conduce nella loro nuova dimora finita e arredata, un’elegante costruzione a due piani di fronte al mare blu di Provenza. La ragazza aspetta un bambino.
Questa è la storia incompleta, che non autorizza una parola in più. Perché la verità è un’altra e la vicenda si evolve con un colpo di teatro inimmaginabile. La figura femminile che la regista tratteggia con estrema delicatezza, non è soltanto il ritratto della protagonista ma di ogni donna, di tutte le donne; le quali sfuggiranno sempre alla piena comprensione degli uomini a causa di una diversità così profonda che a volte può risultare inconcepibile alla logica maschile. La donna ospita dentro di sé un laboratorio miracoloso in grado di donare la vita, di mettere al mondo un altro essere, e ciò la rende unica e preziosa. Nel romanzo “Passaggio in India” di E. M. Forster, l’anziana Mrs. Moore pronuncia questa frase indimenticabile: “Secoli e secoli di congiungimenti carnali non sono serviti ad avvicinarci l’uno all’altra”. Forse non è solo così, forse non è sempre così, ma le donne hanno sofferto invariabilmente questa emarginazione dal mondo maschile; le loro stranezze vengono chiamate deliri, capricci, mattane, depressioni, estrosità: nel bene e nel male, a favore o a sfavore. Ma quasi mai suscitano quell’atteggiamento di sacro stupore che bisognerebbe sempre provare di fronte al prodigio: se si conviene che la donna sia un prodigio vivente, senza la quale non esisterebbe né l’umanità, né il creato, né questo articolo e neppure chi lo legge, né tutta l’arte, la filosofia e la storia del nostro cammino sulla Terra. Ogni creatura femminile, non soltanto nel genere umano, è un prodigio; nel mondo animale la femmina è diversa dai maschi, una cagna nasconde negli occhi un mistero insondabile di fronte al quale si resta senza fiato. Umberto Saba quando volle rivolgere un complimento a sua moglie, scrisse una poesia con questo verso: “Tu sei come una lunga cagna, che sempre tanta dolcezza ha negli occhi, e ferocia nel cuore…”
Marion Cotillard con la sua interpretazione dalle infinite sfumature – a volte le basta un movimento impercettibile degli occhi per parlare – ha saputo esprimere questo mistero inviolabile a un vertice commovente e apparentemente rarefatto; al punto che molti non hanno compreso lo spessore del film, scambiandolo per un banale melodramma. Qualche misogino lo ha decisamente stroncato, e non sorprende, perché le donne se non si amano incutono paura. Sono considerate mine vaganti, da ‘disinnescare’, da distruggere; come purtroppo ci riferisce ogni giorno la cronaca nera. Questo film ci aiuta, con finezza, con sapienza, a ricercare un’armonia a portata di mano.