Uno sguardo d’assieme ci fa cogliere, senza buonismi di circostanza, le pratiche alte e quelle basse di un protagonista assoluto della vita radiotelevisiva. Gianni Boncompagni ha rappresentato con realismo creativo ed eversione leggera le storie di mezzo secolo di radio e televisione dell’era analogica e generalista, tuttavia già percependo e anticipando la stagione degli incroci con il Web. Infatti, molti frammenti narrativi sembravano anticipare i tormentoni della rete e dei social. Come calchi costruiti in una bottega artistica, alcuni dei notissimi programmi da lui ideati –spesso con l’altro della strana coppia, Renzo Arbore- hanno influenzato tanto di ciò che è stato poi immaginato e trasmesso. Anzi. La radio, soprattutto, è vissuta due volte proprio grazie ai cult “Bandiera gialla” e “Alto gradimento”, veri e propri romanzi di formazione di generazioni allora giovani: anticipatori o immediate conseguenze delle scosse politiche e semantiche del ’68. La musica internazionale varcò i confini di un paese sonnolenta e conservativo, fermo alle pur nobili e gloriose hit di Sanremo, ma inconsapevole della rivoluzione culturale in corso. E così, satira, ironia e comicità surreale conquistarono un pubblico avvezzo al barzellettume un po’ casereccio che andava per la maggiore. Nacquero linguaggi e stili comunicativi imperituri. Furono lanciati i dj con “Discoring”, balera elettronica popolare e democratica. La rottura della sintassi classica e ormai obsoleta trovava imprevedibile consenso, fino alla definitiva legittimazione. Perché il tutto entrava ufficialmente nei palinsesti della Rai, azienda-tabernacolo del potere ufficiale.
E poi la lunga sequenza televisiva, segnata dal sodalizio con la gloriosa Raffaella Carrà, tracimante via via dalla sperimentazione al trash, talvolta intessuti nella stessa stoffa. Capace di rovesciare con arguzia e brillante “scorrettezza” gli stereotipi farisaici del varietà, il rinnovato catalogo di Boncompagni –da “Pronto, Raffaella” a “Pronto, chi gioca?” a “Primadonna a “Non è la Rai” alla tv negata di “Macao”- ha navigato tra le sponde del servizio pubblico, di Mediaset e de La7 giocando sulla teledipendenza degli italiani, avvolti dalla coperta lunga del video. L’innovazione si coniuga alla parte arcaica e istintuale del consumo, accarezzandola e ringalluzzendola. Sempre –però- con un certo stile, figlio di un mestiere levigato e “globalizzato” dai primi anni di vita in Svezia.
Non solo. Dalla fattoria sono scaturiti volti e corpi che, da sconosciuti, divennero interpreti di un nuovo divismo. Non costruito con l’accurata preparazione teatrale o cinematografica, bensì con la serialità del tempo veloce della televisione gestita da un coach efficace. Si cita come una sorta di epifenomeno Ambra Angiolini, del resto diventata proprio brava, teleguidata da chi forse voleva dirci con crudezza la verità sulla società dello spettacolo. Lei come numerose altre, tra cui la (giustamente) blasonata Claudia Gerini. Non basta. Autore e cantante egli medesimo, a lui si devono piccoli capolavori interpretati da Patty Pravo, o da Renato Zero, o da Jimmy Fontana.
Boncompagni è stato davvero capace sia nell’”alto” sia nel “basso”, per riconosciuta qualità professionale poggiata sull’ “spirito animale” dei media. Tuttavia, c’è ancora qualcosa da sottolineare. E’ stato un narratore dal vivo dell’essenza del mezzo, disvelando esattamente il punto mediano tra il colto e la spazzatura. Capire dove sta la linea di confine è lo specifico di quel territorio espressivo. Capire che le due facce si tengono, inesorabilmente, lo è ugualmente.