Alla fine, Recep Tayyip Erdoğan ha avuto il suo plebiscito. Lasciamo perdere come, con quanti probabili brogli, con quante schede non timbrate rese improvvisamente valide, cambiando in corsa le regole elettorali, con quanti probabili insulti alla democrazia e quante nefaste conseguenze per il futuro del Paese: il Sultano sul Bosforo ce l’ha fatta e ora si illude di poter governare indisturbato sino al 2029 o, peggio ancora, sino al 2034.
Si illude perché la Turchia, per colpa sua, è ora un paese lacerato, diviso, sfibrato, con le principali città che hanno votato no e le campagne retrive che sostengono questa tirannide senza dignità un po’ per ignoranza e un po’ per la profonda arretratezza in cui versano, condizioni da sempre incentivate da qualunque regime che miri unicamente alla propria autoconservazione.
Fatto sta che Erdoğan si è molto indebolito nel corso degli ultimi mesi. Il fallito colpo di Stato dello scorso luglio, la seguente repressione feroce all’indirizzo degli oppositori politici, della minoranza curda e dei sospettati di collaborare con l’odiato Fetullah Gülen e il clima di tensione che si respira in ogni angolo del Paese, tra attentati e violenze d’ogni sorta, hanno reso infatti il dominio del Sultano un potere assoluto ma privo del consenso necessario a far breccia nei cuori delle persone, dunque un potere dimidiato, più fragile, più esposto alla rabbia di una popolazione che si sente in trappola, foriero di un malessere che, prima o poi, gli si ritorcerà contro.
Se a ciò aggiungiamo i voltafaccia del nostro eroe in politica estera, i suoi ambigui rapporti con Putin da una parte e con lo Stato Islamico dall’altra, i suoi affari torbidi e il suo sistema di controllo su qualunque forma di ribellione che inizia a mostrare delle falle evidenti, è assai probabile che l’impero di Erdogan duri ancora qualche anno, al pari della sua Repubblica presidenziale, del suo desiderio di reintrodurre la pena di morte e della sua barbara aggressione nei confronti di qualunque voce dissidente, ma dubito fortemente che possa reggere per oltre un decennio, specie se la crisi mediorientale dovesse precipitare.
La fortuna di Erdoğan, difatti, finora si è basata su una crescita economica impetuosa che adesso sembra essersi arrestata, sulla sua funzione geo-politica e strategica in un quadro internazionale sempre più complesso e, per quanto riguarda i rapporti con il Vecchio Continente, sull’indegno accordo stipulato un anno fa, in base al quale l’Europa chiude entrambi gli occhi sulla disumanità del padrone di Ankara a patto che questi si tenga i disperati in fuga dalla guerra nel Siraq, onde evitare un’ulteriore avanzata delle cosiddette forze anti-sistema.
Naturalmente, questo consegnarsi mani e piedi ad un personaggio pericoloso e inaffidabile ha esposto l’Europa ad ogni possibile ritorsione, non ha arrestato l’ascesa di una sola delle cosiddette forze populiste e sovraniste, che anzi si sono rafforzate ovunque, e ci ha sottoposto, in compenso, al continuo rischio di un’invasione incontrollata di migranti cui non saremmo minimamente in grado di fare fronte.
Poiché, però, sia il quadro internazionale sia la questione dei migranti si stanno vieppiù aggravando e poiché Putin non sembra essere disposto a subire alcuna forma di ricatto, specie per quanto concerne le sue aree di influenza in Siria, e considerando che un’eventuale vittoria della Merkel o di Schulz indurrebbero, probabilmente, la Germania a rivedere i rapporti con la Penisola anatolica, non è assurdo sostenere che le condizioni complessive che hanno agevolato l’ascesa di Erdoğan potrebbero presto venire meno. La rivolta, a quel punto, sarebbe tremenda, con conseguenze imponderabili, e guai a pensare che da questo baratro se ne potrebbe uscire senza altro dolore, altre vittime e altri tormenti perché purtroppo non sarebbe così.
Un’Europa unita, autorevole e in grado di riaffermare le proprie ragioni costitutive e i propri valori basilari potrebbe provare a scongiurare un esito tanto infausto, evitando che la catastrofe si trasformi in una mattanza, ma certo è che questa Europa debole, inesistente in politica estera, autoreferenziale e cinica ai limiti dell’immoralità, questa Europa costituisce, invece, una parte del problema anziché la soluzione alle spaventose turbolenze che saremo chiamati ad affrontare nei prossimi dieci anni.