Si moltiplicano i bandi che offrono incarichi di lavoro non retribuiti. Come è cambiata la professione che oggi comprende il 68% di soggetti senza reddito
di Alberto Spampinato
Di fronte ai bandi di gara per il conferimento di incarichi professionali a giornalisti disposti a lavorare gratis i sindacati e l’Ordine protestano, invocano i rigori della legge, ma non riescono a fermare questo fenomeno, fino a pochi anni fa impensabile e ora sempre più frequente. A offrire questi incarichi sono amministrazioni pubbliche, società private, aziende editoriali grandi e piccole e sembra che non vadano deserti. Il fenomeno indubbiamente esiste e fa nascere qualche domanda. Fa pensare all’impoverimento di questa baldanzosa categoria e ad altri risvolti.
Fino a poco tempo fa, quanto a superbia e a paghe, i giornalisti non sembravano secondi a nessuna. A torto o a ragione, la categoria era stata inserita come una componente di spicco nella cosiddetta “casta” dei privilegiati. E ora?
Bisogna chiedersi cosa significhi, o possa significare, il conferimento di un incarico giornalistico che richiede tempo, lavoro, impegno, professionalità senza prevedere una retribuzione. Significa innanzi tutto restringere la platea degli interessati a coloro che per censo, per ricchezza personale, per godimento di rendite pensioni vitalizi o altri privilegi possono rinunciare al salario. Restrizione certamente ingiusta. Ma significa anche qualcosa che in altri tempi si sarebbe definito alienante: che lo svolgimento stesso del lavoro possa essere una remunerazione sufficiente. E infine fa pensare anche a qualcosa di ancor più preoccupante: che altri possano fornire quella remunerazione che il datore del lavoro non dà, come avveniva un tempo per gli esattori delle tasse, come avviene tuttora in certi paesi per certi mestieri. Ad esempio, per i camerieri negli Stati Uniti. In quel paese chi va in un bar o ristorante sa bene che al momento di pagare il conto deve guardare bene se il servizio è compreso, e in tal caso basta pagare il conto ed eventualmente lasciare qualche spicciolo, o se invece il servizio non è compreso e in tal caso deve aggiungere al conto una somma compresa fra il 10 e il 15 per cento, che è la remunerazione del cameriere. Chi non lo fa viene pubblicamente sbeffeggiato e pertanto tutti lo fanno. I giornalisti che dichiaratamente lavorano a titolo gratuito mi sembra che somiglino a quelli che lavorano nei locali in cui c’è scritto “servizio non compreso”, che sono a disposizione dei clienti e sono pagati dai clienti. Probabilmente non è così. Ma sarebbe bene chiarirlo anche ai fini del rispetto delle regole etiche, della deontologia, quella piccola ma essenziale clausola che distingue il giornalismo da altre attività nel campo dell’informazione che vi somigliano quanto un compratore può somigliare a un venditore.
Fra le regole le deontologiche che un giornalista deve rispettare ci sono l’autonomia di giudizio, il rispetto della verità, e l’interesse pubblico e finora si è creduto che le precondizioni per lavorare con tanta libertà siano l’adeguata remunerazione e la sicurezza dell’impiego. Ora sembra che non sia più così, ma non si capisce perché e vorremmo capirlo. In questi anni abbiamo visto già tante innovazioni di questo genere che alla lunga hanno portato la categoria al punto critico in cui si trova. E non abbiamo guardato bene cos’era e cosa stava diventando questa categoria.
L’Agcom ha appena radiografato la situazione. Fra l’altro ha detto che la categoria è notevolmente invecchiata, si è impoverita e ha perso credibilità. Inoltre ha sottolineato che fra i 112.397 giornalisti iscritti all’Albo soltanto 35.619 (pari al 31,7%) percepiscono un reddito per questa attività. Non si sa di cosa vivono gli altri 76.778 (68,3%), quale sia la loro attività economica prevalente e quante volte l’attività secondaria consente di accettare un lavoro giornalistico non retribuito. Insomma, ne sappiamo di più ma ci manca ancora qualche informazione importante.