Giovanni Sartori, classe 1924, è scomparso oggi all’età di novantadue anni dopo una vita dedicata allo studio e all’insegnamento. La politica come passione e come materia di analisi e di riflessione, una produzione teorica notevole, cattedre sulle due sponde dell’Atlantico, una teorizzazione del sistema partitico e della meccanica funzionale tuttora attuale e una competenza in materia di cui pochi dispongono: questa è, a grandi linee, la biografia del politologo fiorentino che ha illuminato per tanti anni gli studi in un campo nel quale di solito si tende a preferire lo stile paludato e una sorta di distacco analitico prossimo al cerchiobottismo.
Sartori no: da toscanaccio qual era, con tratti non dissimili da Montanelli nello stile e nell’incisività delle sue riflessioni, non le mandava mai a dire. Sferzante, caustico e dotato di una cultura e di una competenza senza eguali, egli non ha mai rinunciato a denunciare l’arretratezza, le pecche, i vizi e gli aspetti insostenibili del nostro Paese e dell’Occidente in generale, divenendo negli ultimi anni alquanto pessimista, al cospetto di un contesto mondiale che gli causava una preoccupazione tendente al disgusto.
Perché il liberale Sartori, l’atlantista Sartori, il visionario Sartori, e sappiate che lo era davvero, era anche un convinto sostenitore dell’utilità della politica: non vedendola più, soffriva, quasi si disperava e ovviamente ne scriveva dovunque gli fosse dato modo di esprimersi, ribadendo il proprio fastidio per una classe dirigente che riteneva inadeguata a livello globale.
Un uomo che guardava avanti, dunque, sempre proteso verso il futuro, curioso come pochi studiosi sanno essere e costantemente pronto a rimettersi in gioco, a mettere in discussione le proprie idee e le proprie teorie, a sfidarsi e a farsi sfidare, animato da una straordinaria passione per il dialogo e in grado, cosa assai rara nel mondo accademico, di far crescere allievi degni di questo nome. Possedeva, inoltre, anche la rara capacità di criticare senza compiere sciocche generalizzazioni, distinguendo le persone oneste e competenti da coloro che si servono della politica anziché considerarla un servizio alla comunità.
Detestava i regimi: memore del fascismo che visse in gioventù, aveva le antenne ritte e un fiuto particolare per comprendere e denunciare ogni sorta di aspirazione totalitaria, a costo di ricevere l’accusa di massimalismo e di catastrofismo eccessivo.
Non sorprende, del resto, che un uomo formatosi nel milieu culturale di Norberto Bobbio fosse convinto della necessità di difendere la democrazia ogni giorno, ritenendola, a ragione, un bene fragile e deperibile, sempre soggetto ai rischi dovuti alle pulsioni autoritarie di singoli soggetti o di collettività volte non alla semplice amministrazione della cosa pubblica ma alla presa del potere o, peggio ancora, allo sfruttamento del medesimo per favorire un’oligarchia castale a scapito dei cittadini.
Denunciò il berlusconismo e le sue esagerazioni, tanto da arrivare addirittura a parlare di “sultanato”; mise in ridicolo l’inconsistenza dell’epopea renziana, cogliendone l’avventurismo e schierandosi con fermezza per il NO al referendum costituzionale; infine, colse per tempo anche gli aspetti insostenibili di un modello, quello grillino, fondato sull’utopia della democrazia diretta, che appariva agli occhi dell’anziano politologo un grande bluff privo di ogni costrutto. E anche sulla globalizzazione fu lungimirante, spiegando a partire dagli anni Novanta, quando nacque il WTO, che l’apertura di nuovi mercati, senza un adeguato apparato di regole, avrebbe comportato conseguenze devastanti per l’intero Occidente, specie se si considera il progressivo indebolimento degli stati nazionali e la mancata formazione di un’effettiva sovranità europea.
Troppo duro, a mio giudizio, nei confronti di Prodi e di papa Francesco ma qui entriamo nella sfera delle simpatie e delle opinioni personali, a dimostrazione di quanto sia sempre utile la pluralità di pensiero e di quale magnifico valore aggiunto possa costituire il confronto di idee.
La politica come etica e razionalità, come percorso civile e come analisi strutturale della società e delle sue evoluzioni: questo era Giovanni Sartori, questa è stata la sua indimenticabile lezione. Che la terra gli sia lieve.