Un uomo è solo nel mezzo della tempesta – capita a molti nella vita, anche Odisseo arriva da naufrago all’isola dei Feaci – le onde gigantesche lo sommergono e ogni volta riesce a spingere la testa oltre la superficie, riprende fiato, riacquista la lena necessaria per riprendere a nuotare. Non lontano c’è la carcassa di una barca rovesciata, la raggiunge sbracciando, si aggrappa allo scafo per la salvezza, ma un’onda più violenta delle altre manda il relitto in mille pezzi. L’uomo continua a lottare, a nuotare, a sprofondare e riemergere sempre più stanco. Temiamo ormai per la sua sorte. E invece lo ritroviamo tramortito sulla spiaggia, i flutti l’hanno spinto a riva, si è salvato, ma giace inerte, sfinito. Il sole potente lo riscalda, lo asciuga. Quando l’uomo si riprende si accorge di essere approdato a una minuscola isola del vastissimo oceano. Nessuno in vista, solo un leone marino che, infastidito dalla sua presenza, si getta in acqua con alti barriti. Poco dopo alcune tartarughine appena uscite dalle uova dischiuse si affrettano malferme verso l’acqua; la risacca le raccoglie e le trascina a vivere nel proprio elemento. Tutte tranne una che non ce l’ha fatta, rimane sulla sabbia senza vita. Riacquistato vigore l’uomo inizia a esplorare l’isola, un cumulo di rocce che si eleva verso il cielo, un orlo di spiaggia bianca, una selva verde alle spalle, e il mare tutt’intorno a perdita d’occhio. Il primo essere umano gettato sulla terra, in un atollo disabitato. L’uomo riesce a staccare da un albero altissimo dei grossi frutti che cadendo si spaccano a terra, ne assaggia la polpa, se ne ciba affamato. Non è più solo, dai buchi della sabbia spuntano dei piccoli granchi curiosi, che sulle loro zampette frettolose corrono a mangiare gli avanzi; sono ghiotti e buffi, sembrano decisi a tenergli compagnia. Il naufrago riprende l’esplorazione, ma calcola male la misura di un salto tra due rocce e precipita da quell’altezza vertiginosa in un minuscolo specchio d’acqua chiuso tra pareti a picco e levigate, impossibili da scalare. L’unico scampo è trovare una via d’uscita nel fondale. L’uomo si riempie i polmoni e si immerge, si infila uno spiraglio troppo stretto per lui: incastrato! Ricorre a tutta la sua forza per districarsi, riesce a passare, ritorna a galla respirando felice in mare aperto. Guadagna la sponda che ha alle spalle una foresta di bambù. L’uomo vi si inoltra trasalendo a ogni grido di uccello, ma capisce che usando quei tubi di canna resistenti, caduti a terra, può costruirsi una zattera.
Così ha inizio il film di animazione La tartaruga rossa, ottanta minuti di assoluto incanto poetico, girato da Michaël Dudok de Wit, un regista olandese che dentro il suo cuore parla nipponico. Infatti l’opera è stata prodotta dallo Studio Ghibli, la casa cinematografica del più grande regista vivente di cartoon, Hayao Miyazaki, l’autore di capolavori prodigiosi come Laputa – Castello nel cielo, Porco rosso, La città incantata, Il castello errante di Howl, Ponyo sulla scogliera. Dudok de Wit ha assimilato lo stile e lo spirito dell’artista giapponese, fin quasi a ricalcarne l’ispirazione, il sospeso fluire della narrazione; si discosta dal modello di riferimento solo nella costruzione grafica dei personaggi, che pur assai espressivi sono appena sbozzati rispetto ai disegni di Miyazaki, di sublime ricercatezza e curati fino all’ultimo dettaglio scenografico. Però l’effetto di magia, di esperienza onirica, ipnotica, in cui lo spettatore si ritrova avvolto è assai simile e l’impressione è di un viaggio sapienziale.
L’uomo sull’isola si mette al lavoro a testa bassa legando i tronchi con le liane e adattando il fogliame a una vela di fortuna. Spinge in mare la zattera e fiducioso si allontana lentamente dall’isola. Ma una volta al largo, avverte impaurito un potente e misterioso cozzare sotto i piedi, una minaccia inspiegabile. A un urto più deciso la zattera va in frantumi. Nessuno in vista, né sopra, né sotto l’acqua. L’uomo guadagna la riva a nuoto, sconvolto. Però non rinuncia: l’isola tropicale è un paradiso, ma non per viverci in solitudine. Pazientemente comincia a costruire una nuova zattera. La rimette in mare e di nuovo la forza misteriosa la sconquassa senza pietà. L’uomo riguadagna terra, sfoga la propria rabbia urlando con le braccia alzate al cielo contro l’ignoto nemico che gli impedisce di evadere da quella assurda prigione. Finché al terzo tentativo scopre la responsabile dei suoi naufragi: una grande tartaruga rossa che, sotto la superficie, lo fissa negli occhi. L’uomo teme per la propria vita, si raccoglie come un feto aspettando il peggio; ma la tartaruga rossa non ce l’ha con lui, si mostra anzi amichevole. Vuole soltanto impedirgli di partire. Così un giorno che la tartaruga si avventura sulla spiaggia, annaspando, e si ferma stremata sotto la torrida canicola, all’uomo non par vero di prendere la sua rivincita. La raggiunge, con enorme sforzo riesce a rivoltarla di pancia, esponendola impotente al dardeggiare rovente del sole; condannata a morte. Inutilmente l’animale agita le pinne nello spasimo, non riuscirà mai a raddrizzarsi, e l’uomo assiste impassibile alla sua agonia, scaricando su di lei la sua protesta. Poi le rimane inginocchiato accanto, forse pentito della propria azione irresponsabile. Le accarezza una pinna ormai inerte e, miracolo, il carapace si spacca, sotto il guscio appare una femmina dalla chioma rigogliosa e il corpo avvenente da sirena. L’uomo, estasiato, corre a prendere dell’acqua dolce, la disseta, aspetta che si rianimi; lei corre a rifugiarsi nel mare, immersa fino al collo, per coprire la sua nudità, e lui comprendendone il pudore le offre la sua camicia. Sull’isola deserta inizia una vita a due che presto diventa a tre, con un bambino che nasce dal loro amore. Un brutto giorno uno tsunami si abbatte sull’atollo con violenza inaudita, la famigliola cerca scampo verso le rocce ma la corrente è più veloce, più forte, distrugge al suo passaggio la selva, travolge ogni ostacolo, e si ritira lasciando soltanto desolazione. La donna è rimasta ferita alla gamba, ma tutti e tre si sono salvati. La vita continua. hanno imparato persino ad accendere un fuoco. Gli anni passano, il bambino cresce, i genitori sono ormai maturi. Il vigoroso adolescente, decide a sua volta di lasciare l’isola incontro al proprio destino, e si inoltra nell’oceano verso l’ignoto. Padre e madre non si oppongono, resteranno soli, diventeranno vecchi insieme. L’uomo ha la chioma bianca, e una sera sulla spiaggia, si abbandona al sonno senza risveglio. La moglie lo veglia fino all’ultimo anelito, quindi si trasforma di nuovo nella tartaruga e lentamente riguadagna l’acqua, si immerge, sparisce verso l’orizzonte.
Ogni uomo, a iniziare dal poema di Omero all’origine di tutte le letterature, cerca di evadere dalla propria isola, si ingegna, si affanna, impreca contro le forze ostili che si oppongono alla sua piena realizzazione. Ogni uomo lotta per mettersi in salvo dalla tempesta, dai marosi, e quando crede di avercela fatta, sopraggiunge uno tsunami che distrugge tutto ciò che lo circonda. Ogni uomo uccide la propria favola e poi si costruisce un sogno per sopravvivere alla colpa; e la femmina, l’altro da sé, è il suo sogno più grande.
Già il drammaturgo spagnolo Calderón de la Barca aveva intuito che La vida es sueño “La vita è sogno”, e William Shakespeare ipotizzava che non c’è distinzione tra l’una e l’altra dimensione, anzi spesso esse si confondono in un inestricabile enigma. Qualche mistico è arrivato a sostenere che le nostre vite sono semplicemente un sogno di Dio, e le nostre esistenze non appartengono a questo mondo ma a un altro universo sconosciuto. Sono ipotesi su cui l’essere umano si interroga da quando ha messo piede sulla terra, e che non smettono di affascinarci, come se il tempo, le ere, i milioni di anni non fossero mai trascorsi, e noi fossimo ancora soli su quell’isola in balia di eventi al di sopra della nostra portata.
Quando ci si imbatte in un film come La tartaruga rossa ci assale in egual misura lo sgomento e la felicità. Peccato che un’opera talmente poetica sia restata nelle sale tre giorni in tutto: il bagliore di un diamante nel fango.