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Fatta l’Europa facciamo gli europei

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È da sessant’anni che l’Europa è fatta ma, come è sotto gli occhi di tutti, non sono stati fatti ancora gli europei. C’è, è vero, la moneta unica che in un vasto spazio, e tra i più importanti anche, ha uniformato la finanza e il commercio; c’è l’Erasmus che permette ogni anno a migliaia di giovani di scambiare esperienze di vita con studenti di altri Paesi; ci sono le istituzioni condivise, ma si avverte una grande distanza tra queste e i cittadini. Quello che manca è lo scambio emotivo, il senso diffuso della partecipazione, il sentimento di appartenenza ad un’unica entità collettiva.

Tra i vari, un motivo di fondo è evidente: sessant’anni di convivenza pacifica dopo millenni di belligeranza non sono certo sufficienti a consolidare le prassi e le tradizioni in cui si riconosce l’unicità di una nazione e non basta la scelta di un inno comune o la convergenza su una bandiera a radicare capillarmente lo spirito di corpo. Il percorso, ancora lungo in questa direzione, sarebbe però sicuramente agevolato dalla scelta di una sola lingua europea. È infatti la lingua lo strumento di scambio delle idee e delle emozioni, delle esperienze e delle conoscenze col quale sviluppare l’integrazione delle diverse origini verso un solo popolo.

Se su questo aspetto è facile convergere, assai più difficile sarebbe la scelta della lingua unica fra quelle disponibili e gli ostacoli ad essere pretermessi sono sin troppo facilmente prevedibili. Basti ricordare il famoso nazionalismo francese. Eppure, in un simile ambito discorsivo la scelta della lingua unica non potrebbe che cadere sulla lingua inglese.

Per il passato storico della Gran Bretagna, espansionistico e coloniale, la lingua inglese è parlata dall’Asia all’America del nord e, quindi, dai Paesi a più forte vocazione tecnica, tecnologica, commerciale ed economica. Già questo basterebbe ad ampliare lo spazio comunicativo in caso di adozione della lingua inglese come lingua unica europea. Ma il punto di forza dell’inglese è soprattutto nella sua morfologia di base. Non presenta differenze di genere; ha un solo articolo determinativo così come un solo articolo indeterminativo; esprime il plurale con una semplice “s” alla fine della parola; declina tutti i tempi passati aggiungendo “ed” al presente, il futuro premettendo al verbo “shall / will” e forma il condizionale con “would”. Non che all’inglese manchi una capacità espressiva assai complessa e raffinata, come la sua asta letteratura dimostra ma di certo, a livello elementare, non pone i problemi che il congiuntivo, i vari periodi ipotetici e le preposizioni articolate pongono nelle lingue latine.

Peraltro è già nei fatti il convincimento che l’inglese sia la lingua comune più adatta alla popolazione globale e le resistenze nell’adottarla ufficialmente non fanno che ritardare l’integrazione culturale di cui gli europei hanno forse più bisogno del mercato comune. Un buon esempio, in tal senso potrebbe essere l’adozione del bilinguismo legislativo obbligatorio, cioè pubblicare le leggi sia in lingua locale che in inglese così come pure i bandi delle gare dei pubblici appalti e dei concorsi per i posti di lavoro. Dall’Italia potremmo offrire all’Europa l’esempio del bilinguismo altoatesino come modello al quale ispirare la specifica normativa.

Importante sarebbe anche la diffusione, da parte di ogni Paese membro, di media in lingua comune e, quindi, di almeno un giornale e un canale televisivo in inglese col quale trasmettere, oltre alle news, anche documentari e versioni adattate dei programmi di intrattenimento più apprezzati e graditi dal pubblico locale.

Né l’adozione della lingua comune d’Europa potrebbe indurre il timore di una perdita di identità e delle caratteristiche culturali radicate in ciascuno dei Paesi membri della Comunità perché essa si aggiungerebbe alle lingue locali e non le sopprimerebbe.

Risultano così superate le perplessità della recentissima sentenza n. 42/2017 della Corte Costituzionale che, a proposito dei corsi in lingua inglese nelle università italiane, ne ha dichiarato la legittimità purché quella straniera non sia la lingua esclusiva e permangano corsi analoghi in lingua italiana considerata nella tradizione della Corte di legittimità: “elemento fondamentale di identità culturale … mezzo primario di trasmissione dei relativi valori (sentenza 62/1992) … elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare (sentenza 15/1996).

E’, infatti, la stessa Consulta a riconoscere che (sentenza 42/2017): “La progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l’erosione dei confini nazionali determinati dalla globalizzazione possono insidiare senz’altro, sotto molteplici profili, tale funzione della lingua italiana: il plurilinguismo della società contemporanea, l’uso d’una specifica lingua in determinati ambiti del sapere umano, la diffusione a livello globale d’una o più lingue sono tutti fenomeni che, ormai penetrati nella vita dell’ordinamento costituzionale, affiancano la lingua nazionale nei più diversi campi. Tali fenomeni, tuttavia, non debbono costringere quest’ultima in una posizione di marginalità…”.

Belle parole e oggettive considerazioni che sembrano incoraggiare all’adozione della lingua comune europea onde, da un lato, favorire la presenza dell’Italia nel fenomeno della globalizzazione e, in primis, nell’integrazione europea e, dall’altro lato, nell’escludere la marginalizzazione della lingua italiana che chiamerebbe quella straniera al supporto dell’internazionalizzazione del nostro Paese e non alla sostituzione linguistica.

L’auspicio è che, dalle parole (italiane), si passi ai fatti (europei).


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