BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Io, la verità, parlo

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“…Mi chiamo con continuo scandalo, il mio nome genera scompiglio,
tutti i miei nomi gli addetti al lavoro più sporco cercano di addomesticarli,
di farne un’immaginetta da dimenticare in solaio,
il solaio delle cose perse da cui continuamente evado,
così che possa stare bene al centro.
Io, sono il vostro centro.

Mi chiamo per non smettere mai di chiamarvi,
voi che siete vittime e imputati allo stesso tempo,
voi che in me siete per sempre coinvolti.

Vi conosco tutti, uno per uno, conosco i vostri volti, ogni dettaglio lo ricostruisco,
ho un’infinita pazienza e il tempo mio si chiama “sempre” ed è adesso che si
svolge e vi travolge, con grande indulgenza.

Le cose non sono mai quello che sembrano.
Ricordate, ricordatemi.

Mi chiamo Ilaria Alpi, sono morta il 20 marzo 1994.”

Ho voluto iniziare così questo ricordo 23 anni dopo. Parole scritte da Aldo Nove per Ilaria Alpi nel ventennale della sua morte.
Poche frasi di un testo lieve e intenso. Parte di un monologo forte ed emozionante recitato da Sabrina Impacciatore.

E’ la Verità/Ilaria che parla. Parole potenti perché arrivano direttamente al cuore e alla mente.
Vorrei che queste parole arrivassero a chi oggi può, deve svelare:
chi ha ucciso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, gli esecutori;
chi ha organizzato l’esecuzione, ha pagato per uccidere, i mandanti;
chi per 23 anni ha mentito, ha coperto responsabilità, ha fatto carte false, i depistatori.

Adesso.

A Perugia si è conclusa la revisione del processo nei confronti di Hashi Omar Hassan  condannato a 26 anni di carcere per concorso nell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 a Mogadiscio.

La testimonianza chiave di Ahmed Ali Rage detto Jelle è falsa.

Era già scritto a chiare lettere nella sentenza di assoluzione di primo grado di Hashi che fu indicato come un vero e proprio “capro espiatorio”. E anche prima nelle dichiarazioni di Ettore Gallo, esimio presidente della commissione governativa incaricata di indagare sulle vicende somale legate alla presenza italiana durante la missione internazionale “restore hope” (relazione finale gennaio 1998); nel libro “l’Esecuzione” (Luciana e Giorgio Alpi, Mariangela Gritta Grainer, Maurizio Torrealta – Kaos edizioni –gennaio 1999).

Le motivazioni  della sentenza di Perugia (12 gennaio 2017) si concludono con due punti importanti: “…deve revocarsi la sentenza emessa dalla Corte  d’appello di Roma ….nei confronti di Hashi Omar Hassan, con conseguente assoluzione del predetto reato ascrittogli per non aver commesso il fatto.”  “…indipendentemente da chi fosse stato l’effettivo ‘suggeritore’ della versione dei fatti da fornire alla polizia …il soggetto Ahmed Alì Rage detto Jelle potrebbe essere stato coinvolto in un’attività di depistaggio di ampia portata…

 Attività di depistaggio che ben possono essere avvalorate dalle modalità della ‘fuga’ del teste e dalle sue mancate concrete ricerche….”

Dunque un cittadino somalo è stato in carcere per 18 anni ed era innocente.
L’errore giudiziario “perseverante” in tutti questi anni viaggia insieme al fatto che c’è chi ha depistato, costruito carte e piste false.
Una rapida sintesi della tragica storia: Il 20 marzo 1994 è domenica. A casa Alpi verso le tre del pomeriggio arriva una telefonata dalla redazione del Tg3. A rispondere è Luciana, la mamma di Ilaria. «Ilaria è morta…» le dicono.
Incredula e disperata è la sua reazione. Aveva parlato poche ore prima con Ilaria al suo rientro a Mogadiscio da Bosaso. Che cosa poteva essere successo? E come dirlo a Giorgio che, rassicurato dalla telefonata ricevuta da
Ilaria, riposava tranquillo?
La notizia riportata dall’ANSA non proviene dalle autorità italiane o dall’UNOSOM, ma da Giancarlo Marocchino, l’imprenditore italiano che si recherà per primo sul luogo dell’agguato e che avrà e continua ad avere un ruolo chiave e ambiguo in questa tragica storia.

Da subito si tenta di accreditare la tesi dell’incidentalità: un attentato dei fondamentalisti islamici, una rappresaglia contro i militari italiani, un tentativo di sequestro o un tentativo di rapina finiti male. Ma fu un’esecuzione: è ciò che è venuto confermandosi in tutti questi anni dalle inchieste giornalistiche, dalle commissioni parlamentari e governative che se ne sono occupate, anche dalle sentenze della magistratura che non hanno individuato i responsabili ma il movente sì (es. “…questi scopi sono da individuarsi nella eliminazione e definitiva tacitazione della Alpi e di chi collaborava professionalmente con la giornalista L’allarme suscitato in chi era coinvolto a qualsiasi titolo nei traffici illeciti ed il nutrito timore per la divulgazione delle notizie apprese dalla Alpi, la conseguente necessità di evitare siffatta divulgazione sono le ulteriori circostanze che hanno segnato irreparabilmente il destino di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin: costituiscono l’antefatto nonché il movente dei delitti per i quali è processo.” (dalla sentenza di condanna all’ergastolo di Hashi Omar Hassan del novembre 2000)

E così le motivazioni con cui il gip dottor Emanuele Cersosimo nel dicembre 2007 respinge la richiesta di archiviazione degli atti del procedimento penale presentata dal pubblico ministero dottor Franco Jonta,  della procura di Roma.

“……la ricostruzione della vicenda più probabile e ragionevole appare essere quella dell’omicidio su commissione, assassinio posto in essere per impedire che le notizie raccolte dalla Alpi e dal Hrovatin in ordine ai traffici di armi e di rifiuti tossici avvenuti tra l’Italia e la Somalia venissero portate a conoscenza dell’opinione pubblica italiana…..”

Il gip dunque dispone che il pm proceda alla riapertura delle indagini partendo dall’acquisire e analizzare tutto il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a partire dalle tre relazioni finali. La relazione di maggioranza, com’è noto, conclude che non si era trattato di un’esecuzione ma di un tentativo di sequestro finito male. Per l’avvocato Taormina nessun mistero su quelle morti, nessuna indagine scottante stavano svolgendo a Bosaso Ilaria e Miran, nessun ipotetico traffico di armi e rifiuti tossici o altro avevano scoperto. Il caso è chiuso. Le due relazioni di minoranza presentate dal centrosinistra contestano questa conclusione e accusano la maggioranza di aver fatto carte false e di aver ignorato documenti e testimonianze che mostravano come si fosse trattato di un “duplice omicidio mirato preordinato e ben organizzato con dispendio di uomini e mezzi”.

Un esempio: la testimonianza del sultano di Bosaso Abdullahi Mussa Bogor che Ilaria e Miran intervistarono pochi giorni prima di essere assassinati è stata completamente ignorata dalla relazione di maggioranza.

Il sultano dice che Ilaria sapeva del sequestro della Faarax Omar davanti al porto di Bosaso; che voleva recarsi sulla nave, uno dei pescherecci donati dalla cooperazione italiana alla Somalia, che cercava conferme (ma già sapeva) su traffici di armi e di rifiuti tossici finiti in mare o interrati durante i lavori di costruzione della strada Garoe Bosaso. Termina con queste parole: “…Tutti parlavano dei traffici…del trasporto delle armi, dei rifiuti…chi diceva di aver visto…non si vedeva vivo o spariva o, in un modo o nell’altro, moriva…”

E così mentre le indagini non producevano passi avanti significativi per avere verità e giustizia, “menti raffinatissime” sono state in azione fin dai primi giorni dopo l’uccisione premeditata: omissione di soccorso, sparizione dei block notes e di alcune cassette video, non effettuazione  dell’autopsia, violazione dei sigilli dei bagagli, costruzione “persistente” della tesi della casualità…sempre.

Adesso la sentenza del tribunale di Perugia: Hashi è innocente, è stato un capro espiatorio costruito attraverso un’abile attività di depistaggi.
È probabile che la più rilevante sia stata compiuta nel 1997 per poi proseguire nel tempo. Ecco alcuni evidenti passaggi:

Nell’estate del 1997 proprio mentre stanno per arrivare dalla Somalia due testimoni oculari (autista e scorta) viene tolta l’inchiesta al magistrato Giuseppe Pititto che aveva dato un impulso al lavoro di indagine (dispose finalmente la dolorosa autopsia sul corpo riesumato di Ilaria e dispose la super perizia medico balistica che concluse:”…il colpo mortale è stato sparato a distanza ravvicinata…l’aggressore, in piedi sulla strada, sparò aprendo la portiera posteriore sinistra o dal finestrino…”).

Contemporaneamente esplode il caso delle presunte violenze di militari italiani nei confronti di cittadini somali e viene reso pubblico il memoriale del maresciallo Francesco Aloi che sostiene di aver conosciuto e frequentato Ilaria quando operava in Somalia con informazioni a dir poco improbabili. Si scatena un “rumore” mediatico fortissimo, il governo nomina una commissione di cinque persone presieduta da Ettore Gallo.

Sempre contemporaneamente spunta un nuovo testimone oculare: Ahmed Ali Rage detto Jelle che “indica” all’ambasciatore Giuseppe Cassini uno dei presunti assassini del commando di fuoco: Hashi Omar Hassan!

La procura di Roma opera con grande velocità, in questi giorni. Il 6 di agosto Cassini viene ascoltato dal procuratore capo dottor Salvatore Vecchione.

Nel mese di ottobre Ahmed Ali Rage detto Jelle arriva in Italia e viene ascoltato dalla polizia e poi dal dottor Jonta (ha sostituito il dottor Pititto): fa il nome di un componente del commando: Hashi Omar Hassan; fa un racconto molto impreciso del 20 marzo, sostiene che nessuno si è avvicinato alla macchina ma che hanno sparato da lontano. Un testimone falso che indica un capro espiatorio e, cosa importante, conferma la versione della casualità.

Jelle sparisce la vigilia di Natale sempre del 1997 pochi giorni prima dell’arrivo di dodici cittadini somali che la commissione Gallo aveva fatto venire in Italia per l’inchiesta sulle presunte violenze subite. Tra questi c’è Hasci Omar Hassan che verrà arrestato, con l’accusa del duplice omicidio, appena sbarcato all’aeroporto di Ciampino. Il suo accusatore Ahmed Ali Rage è già “irreperibile”: una fuga clamorosa e improbabile per un testimone chiave sotto protezione che ogni giorno viene accompagnato dalla polizia presso l’azienda “Scomparin” dove lavora.

Non lo si è più cercato nemmeno quando telefonò dall’estero nel 2004 (e anche nel 2010) per dire che era stato indotto ad accusare Hashi da una autorità italiana e che la sua testimonianza era falsa (le conversazioni sono registrate e fanno parte della documentazione a disposizione delle autorità investigative).

Sparito il testimone, si è costruito un testimone “di riserva”, Ali Mohamed Abdi l’autista di Ilaria, già arrivato anche lui tra i dodici somali. Dopo un lungo interrogatorio e una pausa di oltre due ore finalmente dirà che sì riconosce Hashi, gli è venuto in mente, faceva parte del commando ma non aveva sparato.

Dunque il corso della giustizia è stato compromesso, gli assassini e chi li copre hanno potuto contare sul fatto che le tracce si possono dissolvere, che alcuni reperti sono scomparsi o non sono più utilizzabili, che molti testimoni hanno mentito non hanno detto tutto ciò che sapevano, altri sono morti in circostanze misteriose. La copiosa documentazione comprendente testimonianze, audizioni, informative, materiali processuali di moltissime procure che direttamente o indirettamente hanno investigato su questo caso, raccolta dalla commissione d’inchiesta, era segreta. Grazie all’iniziativa congiunta delle Presidenza della Camera e del Consiglio iniziata nel 2014 è oggi a disposizione di tutti i cittadini anche attraverso il sito:

www.archivioalpihrovatin.camera.it

Altri 61 documenti sono stati desecretati proprio in questi giorni dalla commissione ecomafie: riguardano le “navi dei veleni” che entrano nel nostro caso ancora in quel 1997 quando viene ascoltato in audizione, subito segretata, il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone (rivela quando come e perché il clan dei casalesi abbia cominciato ad interessarsi di rifiuti tossici e quali collegamenti avesse con i diversi poteri e in quali settori del ciclo…). Si viene a conoscenza del collegamento con l’inchiesta della procura di Reggio Calabria, della morte per avvelenamento del capitano De Grazia (il 13 dicembre 1995), figura chiave del pool investigativo di quella procura: rintracciò copia del certificato di morte di Ilaria tra le carte sequestrate nell’abitazione del noto trafficante Giorgio Comerio.

Aprono il sito gran parte dei lavori di Ilaria, anche inediti, che testimoniano il profilo di una giovane donna appassionata della vita e del suo lavoro. Questi filmati così come i lavori scritti di Ilaria, i racconti che di lei hanno fatto i suoi genitori, alcuni colleghi e amici ci hanno fatto scoprire molte cose di lei.

Ilaria è un esempio forse anche perché in lei ognuno può cercare, trovare qualcosa di sé: l’interesse per i mondi dentro e fuori il nostro mondo, l’indignazione per le ingiustizie e le atrocità che continuano ad accadere, l’amore per ciò che si fa, per la conoscenza, per la cultura. L’amore per tutto quello che avvicina le persone ad altre persone, vive o morte.

Io la verità parlo:…Il tempo mio si chiama “sempre” ed è adesso che si svolge e vi travolge. È il tempo anche di Luciana Alpi che ci travolge con un altro grido di dolore annunciando “che si asterrà dal frequentare uffici giudiziari e dal promuovere nuove iniziative; mantenendo però attenta vigilanza contro ogni altro tentativo di occultamento”. Solidali vigileremo con lei.

Adesso è il tempo che la Procura di Roma svolga il suo compito fino in fondo: assicurare alla giustizia esecutori, mandanti, depistatori.


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