Se dovessi sintetizzare in una frase il pontificato di papa Francesco direi: parole semplici e gesti forti. Le omelie mattutine, le conversazioni del mercoledì, le interviste, il suo magistero hanno un linguaggio “popolare”. Mi sovviene un accostamento, forse un po’ azzardato, ma sicuramente significativo: anche gli Scritti, le ammonizioni e i testi autografi di San Francesco, come pure lo stesso Cantico delle Creature propongono parole semplici animate dall’autorevolezza di una vita, dove, prima ancora delle parole, arriva la testimonianza. Si tratta di parole “sine-plica” sena pieghe, leggibili, che arrivano al cuore e che non hanno bisogno di commenti o spiegazioni.
Accanto alle parole semplici, i gesti deflagranti. Come quello che della preghiera che fermò l’attacco alla Siria, una pagina indimenticabile di questo pontificato. Gesti che inondano di pace, come quello della convocazione a sorpresa del presidente colombiano Juan Manuel Santos e dell’ex presidente Álvaro Uribe Vélez. Gesti che non solo scuotono la politica ma che scuotono la chiesa dalle fondamenta dando voce alle periferie che vengono riportate al centro dell’attenzione: i carcerati, i malati, gli ultimi tornano ad essere protagonisti. Gesti che richiamano le parole di Gesù: Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Ma richiamano ancora quella bussola evangelica (Mt 25,31-46) che non arrugginisce: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”.
Una cosa è certa papa Bergoglio ha avviato un processo che va valutato non tanto per i frutti che già si raccolgono ma per la semina che ogni giorno mette in atto. La sua efficacia e irreversibilità non è legata all’ideologia ma al Vangelo. Non si tratta di una contrapposizione – ridotta banalmente da non pochi osservatori – tra progressisti e conservatori, ma del compiere la volontà di Dio nella storia di oggi.