Quando guardava le sue vetture, quando si fermava ad osservarle con quei suoi occhi curiosi, con quei suoi occhiali scuri e con quella sua espressione altera e inimitabile che talvolta si lasciava andare ad un fantastico sorriso, è come se Enzo Ferrari avvertisse dentro di sé il respiro dell’anima.
Una volta lo disse apertamente: i motori per lui erano un qualcosa di intimo, di familiare, di fraterno, e d’altronde non si mette in piedi un mito in grado di durare settant’anni e di esprimersi sempre ai massimi livelli se quella meraviglia rossa nata nel cuore pulsante dell’Emilia non è, di fatto, la tua ragione di vita.
Perché Enzo Ferrari, “The Drake”, prima pilota, poi costruttore e, naturalmente, primo sostenitore delle sue creature e punta di diamante dell’industria automobilistica italiana, il padrone delle rosse più amate al mondo era anche un uomo capace di lavorare con una tenacia, una passione, una dedizione e una grinta che persino i più acerrimi avversari erano costretti a riconoscergli.
Ma cosa vuol dire Ferrari oggi, a settant’anni da quel miracolo ingegneristico che fu la 125 S? Parliamo di un gioiello che diede inizio ad una leggenda planetaria, capace di resistere all’usura del tempo e di sembrare, anzi, sempre più bella, sempre più affascinante e, non a caso, in grado di conquistare anche i palati fini degli sceicchi.
E oggi? Cos’è oggi, quando in Occidente sembrano essere tramontate tutte le utopie e anche i piloti altro non sono che i protagonisti pluri-milionari di un circus senz’anima che guarda ormai in pianta stabile ai ricchi mercati asiatici e ai petro-dollari di paesi discutibili sotto ogni punto di vista ma in grado di garantire introiti assai più cospicui rispetto agli storici circuiti europei?
Cos’è oggi che ci siamo trasferiti fra le dune del deserto o sul circuito cittadino di Singapore, dove oltretutto si corre in notturna, per rendere ancora più spettacolare un’atmosfera che, sportivamente parlando, non suscita alcuna passione? Cos’è oggi che abbiamo abbracciato l’India e Abu Dhabi e detto addio a piste che hanno significato gioia e dolore, trionfi e tragedie ma, soprattutto, che sono state i simboli di un Occidente desideroso di tornare a volare dopo la tragedia dei due conflitti mondiali che hanno insanguinato la prima metà del Novecento? Di quella stagione, purtroppo, non è rimasto nulla, e in questi tempi che cambiano, che si trasformano repentinamente, che si incattiviscono e in cui conta davvero solo il denaro, in quest’epoca buia, probabilmente, il Drake di Maranello non si sarebbe sentito a suo agio.
Non che non fosse un combattente, intendiamoci: sapeva lottare eccome, da sempre, fin da quando sognava di diventare un costruttore e si ingegnava con pochi mezzi e tanto entusiasmo in un’Emilia rurale e contadina ma nient’affatto avara di idee e di risorse umane; fatto sta che Ferrari era il simbolo vivente di una certa concezione pionieristica della vita e del suo svolgimento, fra grandezze e lutti, miserie e nobiltà d’animo, progressivamente divenute sempre più rare, dunque difficilmente avrebbe potuto apprezzare questo degrado collettivo, questa perdita d’ogni ideale, questa prevalenza dei soldi sulle emozioni, degli sponsor sulle vetture, delle diavolerie tecnologiche sulla bravura dei piloti e, soprattutto, degli interessi che non hanno nulla a che spartire con le corse sulle corse stesse.
Eppure dalla fabbrica di Maranello quei meravigliosi bolidi rossi escono ancora, così come escono ancora a i modelli d’élite riservati a chi può permettersi una magia e decide di regalarsela, e il passare del tempo non ha sscalfito la sacralità di questo totem italiano, semmai l’ha rafforzata, rendendo la casa automobilistica del cavallino rampante (scelto in onore di Francesco Baracca, eroe dell’aviazione italiana che cadde a Nervesa della Battaglia durante la Prima guerra mondiale) la quintessenza del made in Italy, uno dei motivi per cui, nonostante tutti i nostri limiti, siamo ancora amati e stimati nel mondo nonché una favola destinata all’immortalità, avendo resistito e anzi saputo accompagnare alla grande l’era della globalizzazione e della comparsa di nuovi, difficili mercati.
Una fabbrica resiliente, dunque, pregevole e al tempo stesso capace di rinnovarsi e di adattarsi alle richieste di una platea di acquirenti che ormai non cerca più unicamente l’efficienza e il rombo di un motore che molti hanno paragonato a una sinfonia, tanta è la cura con cui è realizzato, bensì anche il lusso, la raffinatezza, diremmo quasi la perfezione; insomma, il massimo di ciò che una vettura può esprimere sia a livello aerodinamico che a livello tecnologico.
Il segreto? A nostro giudizio è abbastanza evidente: la Ferrari si è sempre saputa rinnovare seguendo una linea di continuità, sia per quanto riguarda i piloti, cui prima di tutto ha chiesto di essere uomini e punti di riferimento per quanto concerne lo stile e i comportamenti, sia per ciò che ha a che vedere con la struttura societaria e con i diversi reparti di costruzione, scegliendo il modello della grande famiglia emiliana e facendolo valere anche negli anni dell’atomizzazione e diremmo quasi della scomparsa del concetto di società.
Una modernità antica, una storia orgogliosa di sé, un esempio di eleganza e di straordinario spessore culturale e ingegneristico: la Ferrari come scuderia ma anche come stile di vita, quindi, come marchio e come concezione del nostro stare insieme.
Per questo ha resistito e resisterà a tutto, per questo non smetteremo mai di amarla e di sognare di possederne una. E quando vedremo un bolide rosso in pista, fra poche settimane, anche se la Mercedes e la Red Bull dovessero rivelarsi nettamente più forti, sentiremo comunque quell’afflato, quel respiro dell’anima che non apparteneva solo al Drake ma a tutti noi, essendo la Ferrari un patrimonio del Paese e, più che mai, una passione collettiva pressoché ineguagliabile, una delle ultime che ci restano.