BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Riccardo Orioles e la legge Bacchelli. Il governo presti qualche minuto di attenzione

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Era di maggio. Circa 13 anni fa. Alla scogliera di Catania. Ero con la panda prestata dalla mia mamma e cercavo la casa di Ada Mollica dove mi aspettava Riccardo Orioles per una intervista. Avevo il registratorino, il blocco degli appunti, avevo indossato una giacchetta carina. E soprattutto (me lo ha ricordato Ricc qualche giorno fa) portavo con me una guantera di pasticcini fatti da mio papà. Orioles indossava la sua taddarita di ordinanza. Ci sedemmo fuori, su un tavolo di ceramica in giardino. Parlammo per circa 3 ore. Quando tornai a casa con 4 cassette da sbobinare mi misi le mani nei capelli. Però alla fine riuscì a ricomporre tutto.
Fa strano rileggere oggi questa intervista per Girodivite.it (http://bit.ly/girodivite-orioles). Per tanti motivi che non sto qui a raccontarvi (già l’intervista è lunga 18mila battute!). Quello più importante motivo è che sono davvero dispiaciuto che ancora non sia arrivata questa fatidica pensione. Non per i soldi (stiamo scollettando da mesi) ma per la negazione di un riconoscimento all’uomo più generoso che conosco. Non posso credere che da 80 giorni, dopo numerosissimi interventi da parte delle più alte cariche dello Stato, la burocrazia freni un “premio” a Riccardo. Difficile ricostruire il suo ruolo, centrale per l’antimafia sociale, da freddi documenti e bullettini.
Penso che i componenti della Commissione Bacchelli, il Premier Gentiloni, il Consiglio dei Ministri debbano dedicare alla vicenda 5 minuti: magari chiamando Riccardo al telefono, andandolo a trovare in uno dei giri istituzionali dei politici (la scorsa settimana il presidente Gentiloni era a Catania ad esempio), condividere con lui un piatto di pastasciutta. E sono sicuro che tutti i freni della burocrazia, qualora ci fossero, spariranno in un secondo. Il tempo di una fumata di pipa. E di un brindisi alla faccia dei quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa.
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 Redazione Girodivite intervista Riccardo Orioles, storico giornalista de “I siciliani”, il giornale che più di venti anni fa cominciava a denunciare e contrastare la mafia in Sicilia. Con lui abbiamo parlato, in una lunga discussione amichevole, di giornalismo, mafia, “I siciliani” e “La catena di Sanlibero”. 

Riccardo Orioles, punto di riferimento nel panorama delle firme giornalistiche in Sicilia. Un giornalista che, con Pippo Fava, ha fondato e sostenuto il giornale “I siciliani”, uno dei primi giornali che hanno avuto il merito di aver denunciato la normalità delle attività illecite di cosa nostra in Sicilia. Cavalieri, massoneria, mafia e politica i temi principali di un giornalismo che si proponeva rigoroso nelle inchieste e nel mestiere di comunicare. Fare il giornalista non bastava nella redazione de “I siciliani”, bisognava essere poliedrici; scrivere, correggere, impaginare, stampare, sapersi sostenere l’un l’altro, tutto serviva alla causa comune di portare alla luce ciò che la mafia per anni aveva fatto al buio. Fava, a un anno dalla nascita del giornale, viene ucciso dalla mafia. Il contraccolpo psicologico della perdita del direttore è molto forte; ma è più forte la scintilla che scatta negli animi dei giornalisti de “I siciliani”, la missione adesso è lavorare più di prima per mettere alle strette la mafia e i responsabili dell’omicidio di Fava. Orioles è il punto di riferimento più forte nella redazione del dopo Fava; guida un gruppo che si contraddistinguerà negli anni per l’unità e per la qualità delle inchieste svolte. In seguito Orioles è stato tra i fondatori del settimanale “Avvenimenti”, ed ha formato al giornalismo d’inchiesta e di impegno civile moltissimi giovani. Attualmente svolge la sua attività giornalistica scrivendo e diffondendo una e-zine in rete.

Cosa è il giornalismo? Come si lega alle nuove tecnologie ed internet?
Il giornalismo nasce perché qualcuno ha voglia di dire qualcosa, in seguito diventa strumento di dibattito aspro e il giornalista diventa militante. Si inizia senza chiedere denaro al fruitore del giornale poi pian piano ci si accorge che il lettore è disponibile a spendere una piccolissima somma di denaro per leggere tutte le ultime novità . In questa maniera si allarga il pubblico e cresce il giornale. La prima motivazione che spinge il giornalismo è politica, dire delle cose senza però rimetterci dei soldi. Il passo successivo è l’imprenditoria giornalistica come la conosciamo adesso.
Siamo in un momento storico in cui le comunicazioni sono sensibilmente più veloci rispetto al passato. Nei giornali spesso troviamo notizie che già conosciamo perché le abbiamo sentite in TV o letto su internet. Questi due media negli ultimi tempi stanno riscuotendo un forte successo e ottenendo molta credibilità. Ma ciò ha il suo lato negativo; nei nuovi media chiunque può comunicare alla maniera del giornalista e può essere paragonato ad un professionista per il lavoro comunicativo che svolge. Questo meccanismo sta aiutando ad eliminare l’intera categoria professionistica perché in questa ottica il mestiere del giornalista può essere svolto da chiunque perché tutti possono avere i mezzi e gli strumenti del giornalista professionista. Un ragazzo giornalista in tv o sul web è sostituibile con un altro che può ricoprire la stessa mansione. Una volta il giornalista era insostituibile; ogni giornalista possedeva individualmente delle conoscenze e delle relazioni con persone che lo portavano ad essere al posto giusto nel momento giusto. Il fatto che tutti possiedono gli strumenti per comunicare getta ombre su un altro fondamentale aspetto del giornalismo: la credibilità. Non tutto quello che sentiamo o leggiamo è vero, eppure non dovrebbe essere così. In quest’ottica c’è bisogno che qualcuno garantisca la credibilità di tutto ciò che noi leggiamo su un cartaceo, sentiamo alla tv e leggiamo sul web. C’è bisogno di formalizzare il giuramento di Ippocrate, che dia la sicurezza che i giornalisti comunicano notizie vere e accertate.

Come si inserisce l’impegno politico nel giornalismo? Qual è la sua esperienza a proposito?
Io sono un giornalista compagno e sono un buon compagno perché sono un giornalista. Non ha importanza se sei di destra o di sinistra, se sei un compagno hai degli obblighi verso la gente. Per esempio, se sei inviato in Medioriente non puoi stare tutto il tempo in albergo e prendere le notizie dalla televisione; devi scendere in strada e parlare con la gente. Essere compagno vuol dire rispettare le persone e parlare alla stessa maniera sia con il venditore che con il generale.

L’impegno politico è una lente deformante per descrivere delle notizie?
Io penso esattamente il contrario, la tua visione dei fatti influisce sul tuo impegno politico. Io sono per l’obiettività, bisogna indagare sui dati senza pregiudizi politici.

Quali sono le differenze tra il giornalismo italiano e quello delle altre nazioni?
Il nostro giornalismo è particolare rispetto alle altre nazioni. Da noi c’è la peculiarità del pastone (ora chiamato raffinatamente “editoriale”) che riassume e critica i fatti del giorno in un solo articolo. Altre peculiarità sono un buon livello di scrittura talvolta prolisso, e una buona impaginazione grafica. Un difetto è che spesso queste peculiarità portano il prodotto giornale a diventare pesante e acquoso. Un esempio può essere il confronto con un giornale francese: si presenta più piccolo, più aggiornato, accattivante nei contenuti e di conseguenza più letto. È differente anche e soprattutto la filosofia del lettore medio: in Francia se il giornale scrive stupidaggini il lettore protesta, si incazza e non lo acquista più, in Italia e soprattutto in Sicilia il lettore è già incazzato prima di acquistare il giornale. Ecco perché le entrate di lettorato sono lontane dai costi industriali.

Qual è il lettorato italiano e quali sono le differenza con il lettorato siciliano/catanese?
Il lettorato italiano non è paragonabile a nessuno altro genere di lettorato europeo. Soprattutto nei giornali, l’italiano non è abituato ad acquistare un quotidiano o dei periodici. Le due regioni italiane in cui il lettorato è superiore alla media sono la Sardegna e la Liguria. A Catania il lettorato è più o meno nazionale; la differenza è che i libri vengono acquistati molto di più rispetto ai quotidiani che vengono generalmente trascurati.

Come riescono a sostenersi economicamente gli editori siciliani?
In Italia l’ultima tendenza per coprire i costi industriali è quella di vendere insieme al giornale un inserto, in pratica tu acquisti una videocassetta, un dvd e il giornale ti viene regalato. In Sicilia gli editori questo meccanismo l’hanno scoperto quaranta anni fa. Non vendono al lettore individualmente un inserto, bensì inventano una collana di inserti che vendono esclusivamente agli enti pubblici e privati. Producono delle pubblicazioni su un qualsiasi tema (es. la storia della Sicilia, l’eruzione dell’Etna, ecc) di tiratura limitata (es. 2000 copie) che poi vendono alla modica cifra di 100 €. In questa maniera il giornale viene utilizzato come strumento di pressione per convincere l’acquisto forzato di tali inserti. È scontato che gli enti comprino un numero considerevole di questi inserti, le entrate di questo meccanismo extra-industriale finanziano il giornale. Ovviamente chi compra più prodotti ha più peso politico… Un altro cattivo costume è che di solito vengono aboliti i contratti ai giornalisti ; il giornalista lo si fa pagare allo stato perché figura come addetto stampa del comune.
Questi sono tutti stratagemmi che uno dei più potenti editori siciliani si è dovuto inventare per fare quadrare i bilanci. Purtroppo la conseguenza di questo malcostume è che il giornale non riesce a crescere culturalmente; il quotidiano viene usato solo come scarso contenitore di cronaca nera e sport, e non propone lo strumento importantissimo del dibattito culturale.

I giornalisti a Catania sembrano pochi…
Esatto, praticamente i giornalisti veri sono dieci. Non per bravura si intende, ma perché solo dieci scrivono, vengono pagati e i soldi ottenuti dalla vendita del giornale finanziano la vita del periodico mettendo in moto il ciclo industriale. Ciò vuol dire che a Catania non esiste una struttura di comunicazione, per crearla c’è bisogno di un processo che richiede anni per essere attuato. L’ultima volta che a Catania esisteva una struttura comunicativa è stata quando c’erano “I siciliani”.

In cosa consisteva la struttura di comunicazione de “I siciliani”?
La struttura si era venuta a creare grazie alla nostra tecnica e al nostro mestiere. Eravamo un punto di riferimento per la comunicazione nel territorio siciliano. Ma per esserlo dovemmo sudare parecchio. Ognuno dei redattori dei siciliani era un azienda. Una azienda di comunicazione. Mi spiego meglio, per il direttore noi non ci dovevamo limitare a fare i cronisti, al tempo stesso dovevamo essere tipografi, impaginatori e tastieristi. Fava all’inizio ci obbligo a seguire dei corsi di computer (i vecchi terminali di qualche decennio fa) in maniera illegale perché vietato dal sindacato (per un giornalista era inconcepibile l’uso dei terminali, uno dei lavori manuali più bassi). Quel tempo impiegato per imparare il computer non era tempo perso, capimmo in seguito che era un mezzo di libertà che ci stavamo conquistando, un domani ognuno di noi avrebbe potuto fare un giornale da solo.

Quando si pensa al giornale “I siciliani” ci si collega subito alle inchieste sulla mafia…
Inchiesta per i primi periodi di vita del giornale è una parola un po’ esagerata. Adesso guardando indietro possiamo dire che abbiamo fatto inchiesta sulla mafia. All’inizio dell’esperienza eravamo quattro “carusi” ignoranti che sapevano poco di mafia e che piano piano sono riusciti a scoprire tutti i collegamenti tra le famiglie mafiose siciliane e catanesi.

Come funziona la mafia in Sicilia?
La mafia in Sicilia è un fatto politico, è uno strumento di oppressione e di controllo sociale. Secondo me la mafia è la nostra forma di fascismo, non ideologicamente si intende. Ad esempio il fascismo, in nome di qualcuno, riesce a fare il prezzo di un bene perché taglia le gambe ai commercianti concorrenti. La mafia utilizza gli stessi strumenti oppressivi, in più stabilisce delle regole di protezione: chi vuole essere protetto e vuole avere il negozio al riparo da eventuali rapine, deve pagare una certa somma ogni tanto, il famoso pizzo. Inoltre le famiglie hanno “l’esclusiva” per la vendita di droga e affini, uno dei principali metodi di sostentamento della mafia.

Come inizia la sua esperienza ne “i siciliani”?
Ero un ragazzo compagno proveniente dall’esperienza sessantottina. Un giorno Nino Recupero mi informò che l’ordine dei giornalisti in Sicilia stava organizzando un concorso per praticanti. Era un concorso che dava ai ragazzi la possibilità di emergere, accasarsi presso un giornale e di essere pagati dall’ordine anziché dalla testata. Io lo vinsi. Mi dovevo fare assumere a “l’ora” di Palermo, ma, appena mi dissero che Fava stava organizzando un giornale, non dovetti neppure scegliere. Ero affascinato da Giuseppe Fava, prima ancora di conoscerlo, avevo letto molti suoi testi. Ricordo il primo incontro; io ero tutto fighetto e vanitoso, volevo fare esteri ma lui mi assegnò la cronaca nera. Perché ci rimasi? Era difficile non rimanere affascinati dal suo modo di parlare. Cominciai a lavorare con lui al “Giornale del sud”. Dopo un periodo di apprendimento cominciai a divertirmi nello scrivere nera. Ma spesso, soprattutto agli inizi, riuscivo inconsapevolmente a cacciarmi nei guai. Un giorno venne un uomo in redazione che voleva denunciare il fatto che ad un incrocio tre energuemeni lo avevano picchiato. Io gli risposi che una semplice lettera di denuncia non bastava: volevo fare una inchiesta. Mi feci dare i nominativi e cominciai una campagna contro questi tizi. I miei colleghi mi guardavano intimoriti: senza saperlo mi ero messo contro i “falchi”, i poliziotti in borghese, io non sapevo nemmeno la loro esistenza. Un’altra volta senza volerlo riuscii a denunciare un giro enorme di cocaina e mafia prendendo spunto da un piccolo episodio di cronaca. Dopo tanti anni venni a sapere che mi avrebbero dovuto uccidere per quella storia; meno male che il mafioso era stato ucciso a sua volta…
In seguito il Giornale del sud cambiò proprietario e Fava non fu più il direttore. Noi per protesta occupammo il giornale, ma poi capimmo che avremmo potuto fare le stesse cose senza chiamarci “Giornale del sud”. Dopo un po’ di tempo fondammo una cooperativa (dal nome “Radar”) e ci trasferimmo in corso delle province a Catania, per un paio di anni imparammo le tecniche tipografiche perdendo tempo e soldi. Avevamo fatto in quel periodo dei piccoli giornali (tra cui Walkie-talkie, giornale in inglese per gli americani di sigonella, fu il primo giornale in Italia a parlare di Santapaola, peccato che era letto da tre persone…) Nel novembre dell’82, Fava ci ordinò di fare i siciliani. Iniziammo nel dicembre, esattamente la vigilia di Natale, era l’inizio di uno dei migliori giornali nel suo genere. Sul primo numero comparve la prima intervista a Falcone e un primo abbozzo di inchiesta sulla storia dei cavalieri a Catania.
La cosa caratterizzante del giornale era che non raccontavamo avvenimenti eccezionali: la nostra bravura consisteva nel fotografare la quotidianità degli avvenimenti nel territorio siciliano. È un lavoro abbastanza difficile, ma è molto importante capire per un giornalista quale è la linea di confine tra la normalità e l’eccezionalità delle notizie. Descrivere la normalità degli accadimenti non fece altro che sottolineare la routine mafiosa e tutti i collegamenti politici che aveva la mafia. Un’altra cosa molto bella de “I siciliani” fu il coinvolgimento dei ragazzi delle scuole, nacque così “I siciliani giovani” da cui scaturirono dei lavori molto belli.
Su tutto la lezione più importante che il giornale ha lasciato è che si possono fare cose enormi essendo un gruppo di persone semplici, come lo eravamo noi redattori. Nella vita non esistono quelli bravi, esistono quelli che hanno il coraggio o la fortuna di farsi avanti. Noi eravamo bravi e tecnici, sapevamo che nessuno poteva aggirarci; ci eravamo dati delle regole per confortarci a vicenda, ad esempio, nessuna inchiesta era individuale, ma era firmata da almeno due persone, ciò per un motivo di sicurezza in quanto se la mafia uccideva un redattore, ce ne era un altro che poteva continuare l’inchiesta.

Quali furono le sue emozioni in giorno dell’omicidio di Pippo Fava?
Fu un giorno di follia. Coesistevano dentro di me due reazioni, una professionale giornalistica (organizzare, intervistare, scrivere) e una emotiva, ero triste, affranto e con un enorme paura. Tutti fummo presi dallo sconforto ed entrammo in una spirale di follia; per quanto mi riguarda ancora oggi non so se ho superato quella condizione. L’omicidio di Fava ebbe anche un contraccolpo professionale su tutti noi della redazione; mettemmo all’opera ciò che il direttore ci aveva insegnato, fummo in grado di fare il giornale, come dicevo tutto il tempo perso anni prima davanti ai terminali non era stato tempo sprecato. Diventammo più professionali nelle inchieste, dopo quello che era successo non era ammessa nessuna sbavatura. Il gruppo rispose all’emergenza rafforzandosi sotto tutti i punti di vista, dovevamo stare uniti e fare un culo così a tutti quelli che si mettevano contro di noi.

Cosa accadde in seguito…
Dopo Fava non abbiamo avuto più un direttore. Io ebbi una piccola parte di gestione del gruppo perché ero un po’ più esperto degli altri. Ma non c’erano primedonne nella redazione, nessun singolo avrebbe potuto fare un lavoro di quel genere. Tutto quello che era sfornato dai siciliani era esclusivamente il frutto di un lavoro corale. Purtroppo come ogni storia, arrivò pure la fine di quella esperienza, “I siciliani” finirono di uscire nel 1986. Poi ci fu un periodo di pausa in cui mi dedicai al progetto “Avvenimenti”, un altro giornale. Tornai ne 1991 e con la collaborazione di Claudio Fava volevo ricostruire e fare rinascere “I siciliani”. Ingenuamente ero dell’idea che il giornale potesse avere un respiro nazionale. In quella edizione però ci furono dei problemi legati soprattutto all’entrata in politica di Claudio, la sua scesa in campo non faceva altro che gettare ombre di partito sul nostro lavoro e alla lunga condizionò il giornale. E pensare che Claudio non voleva diventare un politico…

Lei scrive e cura “La Catena di Sanlibero” una delle più seguite E-zine italiane. Come è nata l’idea?
La “Catena di San Libero” e’ una e-zine gratuita, indipendente e senza fini di lucro. Non ha collegamenti di alcun genere con partiti, lobby, gruppi di pressione o altro. È nata esclusivamente come mezzo di espressione di un giornalista che ha ancora voglia di comunicare e di impostare dibattiti. Siamo in un momento storico in cui le possibilità comunicative sono tantissime. Comunicare con una qualsiasi parte del mondo non aiuta però lo scambio culturale. Bene, la Catena si vuole porre come mezzo di crescita culturale, è un confronto tra persone diverse e un dibattito su alcuni temi proposti da me. Penso che sia una grande possibilità che internet ci offre. Ricevo numerose lettere da tutto il mondo, molte persone mi scrivono quello che pensano, e anche se non condividono il mio punto di vista è molto bello aver scatenato e suscitato una reazione nei lettori. Di norma il giornalista dovrebbe fare questo…

Tempo fa lei fu promotore di un progetto per la nascita di un giornale a Catania. La sua idea era di unire tutte le piccole testate (tra cui girodivite) che bene stavano lavorando sul web…
Esatto. Catania vive un periodo in cui è pronta secondo me a dare una svolta all’informazione giornalistica. Due anni fa secondo me il terreno era pronto per partire con un nuovo giornale. Si chiamava “NZU” ed era il risultato dell’unione di tutte le piccole testate indipendenti sul web, che stavano facendo cose egregie nell’ambito della controinformazione. Io non volevo alcun ruolo particolare nel progetto, volevo coagulare il gruppo redazionale e farlo crescere insieme. Il progetto non andò a buon fine, probabilmente perché alcuni ragazzi non erano ancora maturi per un grande lavoro di gruppo e di squadra. Penso comunque ancora che Catania stia aspettando una nuova struttura comunicativa; bisogna aspettare la generazione giusta.

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