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Montalbano, la mediana perfetta di Umberto Eco

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Il successo strepitoso del “Commissario Montalbano”, con un inedito 44,1% di share e 11 milioni 268mila telespettatori, è un omaggio postumo ad Umberto Eco. Nel notissimo “Apocalittici e integrati” (1964) il compianto pensatore criticava la suddivisione tradizionale tra i tre livelli culturali –alto, medio, basso- sottolineando intrecci e contaminazioni costanti. Un pubblico così vasto come quello toccato dalla serie tratta dai romanzi di Andrea Camilleri significa che è stata raggiunta la “mediana perfetta” tra i diversi protagonisti della fruizione: nord, centro, sud, donne, uomini, giovani, anziani,con i differenti gradi di scolarizzazione. La sintesi tra gli apocalittici e gli integrati. Si può analizzare da vari punti vista il caso Montalbano,  l’essere diventato un  evento mediale figlio di una fortunata commistione tra il testo e la sua rappresentazione. Rimane il fatto che l’accorta miscela tra produzione e consumo è una lezione davvero interessante, che ci racconta molto anche dell’Italia televisiva, vogliosa in tanta parte di avere offerte né omologate né trash. Tuttavia, il tema ha origini lontane.

La poliedrica personalità di Eco è stata approfondita da un angolo di visuale piuttosto inedito dal bel volume di Claudio e Giandomenico Crapis (Umberto Eco e il Pci, Reggio Emilia, 2016, ed. Imprimatur), vale a dire il rapporto “dialettico” tra il semiologo e il maggior partito della sinistra. Il libro, presentato qualche sera fa a Roma insieme ad Alberto Abruzzese e Furio Colombo, mette il dito nella piaga. Le culture dell’universo comunista –pure nella democratica declinazione italiana-  non hanno superato la dicotomia tra alto e basso, arrogandosi il diritto di introdurre gerarchie spesso artificiose come se negli essere umani pensanti non convivessero strati e sentimenti complessi. Andiamo ad una mostra di pittura astratta con spirito militante, ma ci rigeneriamo ascoltando un brano di musica pop. E la televisione, confinata dalle élite della sinistra a puro intrattenimento di scarso peso (ci ricordiamo l’imbarazzante debolezza sul conflitto di interessi di Berlusconi?), ha in verità plasmato la coscienza diffusa più delle hegeliane “arti belle”.

Il 5 e il 12 ottobre del 1963 “Rinascita” –il settimanale del Pci- ospitò un saggio in due puntate di Eco proprio attorno a tali argomenti. “…il fatto è che la cultura di sinistra non ha ancora fatto un sol passo per discutere la natura dell’emozione estetica e le funzioni dell’arte in una nuova situazione storica e sociale…” Benché “…ai Festival dell’Unità si suonano i dischi di Rita Pavone, compiendo in tal modo un gesto automatico di antropologia culturale: si riconosce l’esistenza di un altro universo di valori. Ma poiché la cultura umanistica ufficiale lo ha declassato come universo di disvalori, non ne viene tentata alcuna reale operazione di acquisizione…”

Al saggio critico l’ortodossia rispose con il ricorso ai sacri valori del marxismo della vulgata. Fece eccezione Romano Ledda e temperò gli strali del partito l’allora responsabile culturale Rossana Rossanda, con un lungo e rigoroso articolo che usava criteri interpretativi che correvano con raffinatezza ai confini della linea ufficiale. Comunque, il distacco dagli stili espressivi popolari e il sospetto verso il coraggio delle avanguardie rimasero, pur in forme aggiornate, una costante. Non a caso la lotta della stagione analogica è stata persa malamente, con esiti amari e penosi.

Ora però, con l’era digitale, perseverare diventa sì diabolico. Ci vuole Montalbano.


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