ROMA – Settanta anni di Repubblica italiana, settanta anni di, più o meno lenti, progressi nel raggiungimento di una parità legislativa tra uomini e donne.
E’ la stessa Costituzione entrata in vigore il 1 gennaio 1948, all’articolo 3, ad assicurare l’uguaglianza tra i sessi: “I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di religione e di opinioni politiche – recita il primo comma – hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge”. Eppure, secondo le statistiche pubblicate nel Rapporto annuale del Word Economic Forum (WEF) sulla situazione nel 2016 del gender gap nel mondo (o meglio, nei 142 Stati esaminati), l’Italia oggi è solo al 50esimo posto della classifica generale, con – peraltro – un peggioramento di nove posizioni rispetto allo scorso anno. Tanto è ancora da fare, anche se in questi 70 anni tanto è stato comunque fatto, perlomeno a livello legislativo, come ricorda un dossier elaborato dagli uffici del Senato della Repubblica.
La prima legge della neonata Repubblica in favore delle donne risale al 1950, poco dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale: su impulso delle donne parlamentari – di cui alcune avevano già fatto parte dell’Assemblea costituente – l’attenzione del legislatore si è rivolta alla tutela del lavoro femminile e, in particolare, alla necessità di assicurare alle donne, in quanto madri, una protezione adeguata e speciale. Tra queste: il divieto di licenziamento dall’inizio della gestazione fino al compimento del primo anno di età del bambino; il divieto di adibire le donne incinte al trasporto e al sollevamento di pesi ed altri lavori pericolosi, faticosi o insalubri; il divieto di adibire al lavoro le donne nei tre mesi precedenti il parto e nelle otto settimane successive salvo possibili estensioni. Ci sarebbero però voluti altri 13 anni perché il Parlamento approvasse la legge che, oltre a vietare qualsiasi genere di licenziamento in conseguenza del matrimonio, prevedeva alcune misure a sostegno anche della maternità delle lavoratrici agricole.Con la legge del 1963, il Parlamento italiano compiva un altro passo importante: l’istituzione presso l’INPS della gestione separata “mutualità pensioni” per l’assicurazione volontaria delle pensioni delle casalinghe. Era una tappa fondamentale verso il riconoscimento della dignità del lavoro domestico e del ruolo della donna di casa. Dal marzo 2001 è così obbligatoria l’iscrizione presso l’INAIL di tutti coloro, uomini o donne, che hanno un’età compresa tra i 18 e i 65 anni e svolgono, in modo abituale ed esclusivo e senza vincoli di subordinazione, il lavoro domestico per la cura dei componenti della famiglia e dell’ambiente in cui dimora il nucleo familiare.
Un’ulteriore estensione della tutela delle lavoratrici madri è stata prevista dalla legge 30 dicembre 1971 che oltre ad assicurare un’efficace protezione per le gestanti – divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino – introduceva l’astensione facoltativa dal lavoro per sei mesi, oltre ai tre mesi obbligatori dopo il parto. Nel solco tracciato dalla legge del 1971 si inseriva poi la legge 29 dicembre 1987, n. 546, approvata in sede deliberante in ambedue i rami del Parlamento: riconosceva la corresponsione alle lavoratrici autonome coltivatrici dirette, mezzadre e colone, artigiane ed esercenti attività commerciali, di una indennità giornaliera di maternità per i due mesi precedenti e i tre successivi al parto.L’inizio del nuovo millennio mostra un cambiamento della società italiana e della concezione della famiglia, in cui la donna riveste un ruolo sempre più attivo e paritario in termini di autonomia lavorativa ed economico-finanziaria. Inevitabile, perciò, anche un mutamento della percezione del rapporto genitoriale: la necessità di conciliare l’attività lavorativa con le responsabilità derivanti dall’educazione e dall’accudimento dei figli non costituisce più una esclusiva questione femminile, ma un dovere/diritto da garantire anche ai padri.
In questo contesto si inserivano prima la legge 23 dicembre 1998, che introduceva l’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli e l’assegno di maternità, e poi la legge 8 marzo 2000 che promuoveva un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione, mediante, fra le altre, l’istituzione dei congedi dei genitori e l’estensione del sostegno ai genitori di soggetti portatori di handicap.Nel 2012, in via sperimentale, viene introdotto il cosiddetto voucher babysitting: una misura che riconosce alla madre lavoratrice dipendente, pubblica o privata, nonché alle madre lavoratrice iscritta alla gestione separata, la possibilità di richiedere (al termine del periodo di congedo di maternità e negli undici mesi successivi), al posto del congedo parentale, un contributo economico da impiegare per il servizio di baby-sitting o per i servizi per l’infanzia erogati da soggetti pubblici o da soggetti privati accreditati Ulteriori misure a sostegno della maternità/paternità sono contemplate anche dalla recente legge delega di riforma del mercato del lavoro, il cosiddetto Jobs Act: si prevede l’ampliamento dell’applicazione del congedo di maternità in caso di parto anticipato e di ricovero del neonato; il riconoscimento del congedo di paternità anche se la madre è una lavoratrice autonoma e l’estensione del congedo parentale fino al dodicesimo anno di vita del bambino con una fruizione anche su base oraria.
L’ultimo Rapporto annuale (2016) dell’Istat è impietoso: a fronte di un tasso di occupazione maschile (15-64 anni) del 65,5%, l’occupazione femminile (in relazione ad analoga fascia d’età) in Italia è ferma al 47,2%. E’ solo con la legge 27 dicembre 1956 che anche alle donne è stato consentito accedere alla magistratura, sia pure limitatamente alle funzioni di giudici popolari (ordinari o supplenti) e di componenti dei Tribunali dei minorenni. Per avere il pieno diritto ad accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie senza limitazioni di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge, le italiane dovranno attendere la legge 9 febbraio 1963- Anche tra le forze dell’ordine l’inserimento delle donne è stato un processo lento e graduale. La legge 7 dicembre 1959, ha consentito l’accesso in Polizia, ma nel solo “Corpo femminile” e con funzioni ben circoscritte, come la prevenzione e l’accertamento dei reati contro la moralità pubblica e il buon costume, la famiglia, la tutela del lavoro delle donne e dei minori. E’ stato necessario attendere oltre un ventennio affinché alle donne poliziotto fosse riconosciuta pari dignità rispetto ai colleghi uomini. L’ultimo baluardo al riconoscimento di una piena parità di accesso alle varie carriere professionali è rimasto, per quasi altri 20 anni, il divieto per le donne di svolgere il servizio militare. Per compiere questo passo avanti si è dovuto attendere la legge 20 ottobre 1999.