Mi è capitato spesso, nelle ultime settimane, di frequentare seminari, incontri e presentazioni di libri cui erano presenti personalità che hanno scritto pagine importanti della storia di questo Paese: c’erano, tra gli altri, alcuni ex presidenti del Consiglio, un ex direttore del Corriere della Sera e altre figure, anche a livello imprenditoriale, di notevole spessore ed influenza. Ebbene, per la prima volta in vita mia, anziché avere l’impressione di trovarmi in uno dei centri nevralgici della Nazione, ho avvertito l’amara sensazione di toccare con mano l’impotenza del potere.
Mi era già capitato in passato, a dire il vero, ma mi ero detto che in fondo, per come hanno ridotto le istituzioni, fra rottamazioni e ascese repentine di soggetti alquanto discutibili, fosse assolutamente normale sentirsi a disagio in determinati contesti.
Quando lo stesso disagio si è trasferito fuori dalle istituzioni, però, quando è andato a lambire alcuni luoghi in cui il livello culturale complessivo era altissimo, in quel preciso istante sono stato assalito dallo sconforto. Mi sono reso conto, infatti, che ormai i processi decisionali seguono logiche assai diverse rispetto a quelle canoniche, che gli attori protagonisti vengono selezionati in base a regole non scritte non poi così dissimili da quelle che hanno agevolato l’avanzata di Trump e che la verità è che ormai non esiste più alcuna regola, se non quella del farsi avanti a gomitate, dello scalciare, dello strillare più forte e del gettare nella mischia slogan populisti e demagogici di sicura presa sull’opinione pubblica.
La triste realtà è che ormai sembra davvero che studiare, impegnarsi e credere in qualcosa non serva più a niente, che darsi da fare e mantenere un minimo di rettitudine morale sia una caratteristica tipica dei fessi e dei perdenti, che vadano avanti solo i populisti, i demagoghi e gli imbonitori, tanto abili nel suscitare speranze quanto in prima linea nel tradirle.
Ho potuto toccare con mano, insomma, lo spaesamento di chi pure, per ovvi motivi, ha mille antenne più di me per captare gli umori del Paese e del mondo. Ho toccato con mano il loro navigare a vista, il loro pensoso interrogarsi, il loro guardarsi negli occhi come in cerca di un conforto reciproco, la loro incapacità di fornire risposte in una stagione nella quale sembra essere saltato ogni schema e lì mi sono reso conto di essere assai più minuscolo di quanto non credessi.
In quei momenti, è come se mi fosse crollato il mondo addosso: mi sono sentito solo e fragile, circondato com’ero da un abisso di solitudine e fragilità, di paura e d’incertezza, di mal celata rabbia e di tangibile preoccupazione per il futuro.
Ho provato ad immaginare cosa stesse passando per la mente di personaggi che hanno avuto responsabilità di vertice, che hanno girato i cinque continenti, che hanno detto la loro in consessi dove si decidono le sorti dell’umanità e mi sono fatto l’idea che il loro malessere non fosse poi così dissimile dal mio, che siamo oltre il 2011, oltre la crisi dello spread, oltre il rischio del baratro, in quanto, specie in Italia ma non solo, nel baratro ci siamo ormai con tutte le scarpe, essendosi dissolto il concetto stesso di politica, essendo venuti meno partiti solidi e credibili, essendosi i palazzi del potere riempiti di figure che non avrebbero mai dovuto vederli nemmeno col binocolo ed essendosi definitivamente sfilacciato quel tessuto sociale che solo avrebbe potuto tenere unito un Paese lacerato da mille divisioni e innumerevoli particolarismi.
Ho capito, dunque, che questa Nazione rischia veramente di non avere un domani, che le giovani generazioni, tra cui la mia, rischiano di non avere alcuna prospettiva, che la ripresa economica è un miraggio e che quando si parla di un possibile disfacimento dell’Europa non si parla in astratto, che non si tratta di un’esagerazione o di una distopia orwelliana bensì di un qualcosa che è sotto gli occhi di tutti e che nessuno sembra essere in grado di arrestare.
Mi sono reso conto una volta di più, insomma, di quanto questa catastrofe non costituisca una parentesi bensì l’autobiografia di un Occidente allo sbando, di un’America in guerra con se stessa, di un’Europa sfiancata dalla crisi e dalla scomparsa di qualunque utopia e di un’Italia che non è neanche più “volgare e gaudente” ma semplicemente attraversata da infinite rabbie e da un’incapacità generale di tornare a pronunciare un discorso sui fini, di tornare a ragionare come una comunità nazionale, di accantonare il mero interesse personale per abbracciare una nobile idea di collettività in cammino.
Mi sono reso conto che Margaret Thatcher, di fatto, ha vinto, che la società oggi non esiste più, che i pochi utopisti che ancora si battono per ricostruirla sono stati messi ai margini e che anche coloro che, in passato, si sono lasciati abbagliare dalle luci ingannevoli della Terza via, oggi vorrebbero evadere da questa prigione amorale ma non sanno come fare, avendo smarrito oltretutto la credibilità necessaria per rivolgersi alla moltitudine.
Ho toccato con mano l’impotenza del potere politico, del potere economico e del mondo dell’informazione, avvertendo al tempo stesso un rispetto compassionevole per i suoi autorevolissimi esponenti, i quali si vedeva ad occhio nudo che soffrissero per questa condizione di minorità e di disagio.
E mi sono reso conto, infine, che ormai tutti i processi decisionali seguono rotte lontane dal mio immaginario di un tempo, che passano attraverso canali che non conosco e non voglio conoscere, che non c’è più alcuna pietà per i vinti né gratitudine per chi ci ha preceduto, che siamo oltre l'”homo homini lupus”, in quanto ormai siamo al tutti contro tutti, al “si salvi chi può”, alla guerra civile a bassa intensità, a poteri debolissimi infiltrati da consorterie in grado di pilotarli a proprio piacimento e ad un contesto impossibile da considerare ancora una democrazia compiuta, essendo venute meno le ragioni basilari della democrazia.
Nel mio piccolo, in tanta malora, ho aderito ad un soggetto politico che ha scelto come simbolo l’articolo 1 della Costituzione, probabilmente per provare a reagire alla convinzione diffusa di quanto siano ormai inattuali quei princìpi e di quanto la sovranità appartenga ormai a poteri occulti, i cui miasmi impestano l’atmosfera senza che nessuno riesca a chiudere e sotterrare questo vaso maleodorante che racchiude in sé tutte le tossine delle nostre trentennali sconfitte.