In seguito ai fatti intercorsi il giorno 18 febbraio, quando una delegazione della campagna è stata allontanata dal centro di accoglienza, siamo ritornati il 20 febbraio per accompagnare un rappresentante del comune di Sassari. Tra i nostri obiettivi, verificare la condizione dei minori e delle donne era una priorità. Ricordiamo che il Cas ex discoteca Kiss Kiss, già il nome la dice lunga, si trova in una strada sterrata lungo la 131 tra Sassari e Porto Torres. L’accesso al centro è possibile soltanto da un lato della statale e spesso gli ospiti sono costretti ad attraversare a piedi la strada e scavalcare il guardrail per raggiungere la fermatadel bus più vicina. La distribuzione di giubbotti catarifrangente non può essere una soluzione al pericolo di essere investiti, ma il gestore della struttura afferma di condurre una sensibilizzazione a livello comunale affinché migliorino il servizio di trasporto almeno fino al centro di accoglienza.
A un primo momento di ostilità e incomprensione, e in seguito alla chiamata informativa da parte della prefettura al gestore, l’operatore presente ci fa entrare. Nel frattempo il gestore stava rientrando dalla Asl e si mette a disposizione per parlare con noi e farci fare la visita del centro. Da un punto di vista legale/burocratico, tutti gli ospiti sembrano avere i documenti, molti posseggono già la protezione internazionale (alcuni somali incontrati dagli attivisti confermano di avere la sussidiaria e lo status di rifugiato), ma i problemi sorgono sul piano sanitario. Il gestore afferma di rivolgersi all’ambulatorio di Emergency per facilitare l’emissione del STP da parte della Asl locale, e anche in seguito, l’ambulatorio sembra prestare comunque assistenza sanitaria generica. In particolare, i minori presenti nel centro sembrano attualmente sprovvisti di codice STP, il gestore dice che senza la nomina del tutor è impossibile fargli fare delle visite specialistiche. E a quel punto ci conferma che, malgrado abbia fatto la richiesta al Tribunale competente secondo l’iter previsto, da agosto a oggi, tutti i minori non accompagnati (9 presenti nella struttura per l’esattezza), non hanno ancora un tutor, con tutto quello che implica anche da un punto di vista legale.
Il gestore ci accompagna poi nel piano superiore della struttura (un fabbricato che era in opera di costruzione durante la prima visita di giugno), nel quale secondo lui, stanno i minori presenti: “quando compiono 18 anni, li trasferiamo al piano di sotto, negli stanzoni con gli altri adulti”. Dal bagno della stanza “destinata ai minori”, usciamo sul tetto della struttura: tutto intorno campagna, un centro di raccolta materiale industriale da un lato, un club privè dal altro. Alcuni ragazzi prendono il sole, per lo più nigeriani e gambiani. I saluti tra loro e il gestore sono abbastanza amichevoli.
Chiediamo poi di incontrare le ragazze, così ci guidano nella parte alta della discoteca, quella forse adibita a uffici, o altro un tempo. Le ragazze sono una ventina tra nigeriane e somale, sono suddivise in 4-5 stanze e hanno un bagno privato che posso chiudere con la chiave, come anche le stanze. Incontriamo due nigeriane, una sembra davvero una ragazzina, il gestore ciracconta che ne ha 4 in stato di “obbligo di dimora” e che da agosto i carabinieri di Porto Torres le hanno affidate al centro, non se n’è poi saputo nulla, sono in attesa della decisione del tribunale riguardo i reati commessi. Le ragazze dicono di “stare bene”, eppure non frequentano la scuola e vorrebbero fare dei corsi di formazione; la più giovane sogna di diventare una parrucchiera. Qui sono lontane da ogni cosa. Erano 43 quando sono arrivate, ne sono rimaste soltanto 15, e queste sono seguite a quanto pare da un’associazione anti-tratta che si reca regolarmente al centro per fare i colloqui con loro. Una delle basi per sottrarre le donne al rischio di tratta o al suo perpetrarsi è il collocarle in strutture ad esclusiva presenza femminile ed in zone a basso rischio di reclutamento. L’ex Discoteca Kiss Kiss si trova nella periferia di Porto Torres, un’area degradata dal punto di vista sociale, come abbiamo avuto modo di verificare dopo un breve giro nei dintorni. Inoltre abbiamo ancora impressa la modalità con cui siamo state scacciate qualche giorno prima: dopo aver appena richiesto di poter chiacchierare esternamente con le donne, siamo state invitate ad uscire e ci è stato chiuso il cancello con tanto di lucchetto. “Le donne parlano solo con autorizzazione del responsabile”: sono parole terribili che dicono chiaramente che queste persone non appartengono a loro stesse. “Stare Bene”? Com’è possibile stare bene in un luogo in un luogo del genere, dove non ci sono nemmeno finestre e si dorme accampati?
Il gestore poi ci presenta il caso di H.I. della Nigeria, che è in attesa da oltre un anno della decisione della Commissione Territoriale. Il suo caso è piuttosto complesso, il gestore ci chiede una mano d’aiuto su Cagliari per sollecitare la Commissione.
Quando torniamo al piano terra, nella sala da ballo, un attivista si ferma a chiacchierare con un giovane appoggiato al piano bar con le cuffiette nelle orecchie. Il giovane si trova un po’ a disagio, alle domande di rito, “come ti chiami?”, il giovane si mostra impaurito della presenza di alcuni ospiti della struttura che stanno intorno, prima di rispondere verifica sempre che nessuno possa ascoltare la conversazione. All’evidenza del bisogno di parlare con qualcuno, l’attivista cerca di distendere il tono della conversazione per permettergli di aprirsi, nel frattempo una operatrice del centro gira intorno ai due con la scusa di preparare il servizio del pasto. Il giovane parla a voce bassa assicurandosi che nessuno lo senta, dice di essere lì da agosto e di non aver un tutor; ripete in continuazione che vorrebbe avere la possibilità di andare a scuola. Il centro di accoglienza offre un corso di lingua italiana all’interno della struttura per due volte la settimana, ma lui sostiene che l’insegnante non ha pazienza e tanti non riescono a seguirlo. Continua a scrutare con gli occhi la presenza degli ospiti intorno, mentre chiede all’attivista se è in grado di aiutarlo. Indica lo spazio nella grande sala da ballo, dove lui dorme: in mezzo ad altri adulti e non, a quanto pare, nel locale prefabbricato ad hoc nella parte superiore della struttura, come ci avevano mostrato. Afferma di non fidarsi di nessuno e cerca di raccontare anche la propria storia personale, del perché è fuggito dal suo paese e della sua famiglia. Alla domanda “se ci fosse la possibilità, saresti d’accordo nell’essere trasferito in un altro centro?”, lui risponde “sì, io voglio soltanto andare a scuola”. Dà volentieri il suo numero di telefono all’attivista con la speranza che possa avere buone notizie per lui.
E’ un ragazzo solo e si trova in una situazione di forte disagio, di tensione e di paura, che andrebbe approfondita e alla quale bisognerebbe prendere i giusti provvedimenti. Come lui altri minori potrebbero trovarsi nella stessa situazione in questo momento. Il Cas non è il luogo adatto per l’accoglienza di minori non accompagnati che vivono in situazione di promiscuità con gli adulti e ai quali è negato il diritto di avere un tutor, di essere seguiti da un educatore, di poter andare a scuola o praticare uno sport. Cos’altro deve essere violato?
Il Cas Ex discoteca Kiss Kiss è un esempio eclatante, come tanti altri della provincia, di quella che è conosciuta col nome di “Dottrina Pisanu”, che vuole i centri di accoglienza per richiedenti asilo scollegati dai centri abitati. Ci sono persone che vivono lì da oltre un anno, in un grande camerone e con un telo bianco sopra il letto come unico elemento di privacy.
Un luogo privo di finestre, dove vivono in promiscuità donne, minori, uomini, in una zona degradata della periferia di Sassari, in stretta vicinanza di un club privè. Uno scenario che parla di abusi subiti in silenzio, dietro porte chiuse.
A cosa serve parlare se poi donne e minori non verranno spostati? Chi tutela queste persone? Chi? Se proprio quelle Istituzioni che dovrebbero garantire queste persone creano e reiterano situazioni di promiscuità del tutto fuorilegge? Questa forma di accoglienza ci sembra soltanto in pericolosa continuità con le violenza subite prima dell’arrivo in Italia, una violenza “democratica” in cui “stanno tutti bene”.
Le strutture di accoglienza avulse dai centri abitati contribuiscono, inoltre, inevitabilmente ad aumentare la marginalità sociale, oltre che quella economica, di persone che già per definizione sono vulnerabili e andrebbero pertanto tutelate con maggior attenzione.
Perché questo luogo è stato aperto? Cosa ancora deve essere violato perché venga chiuso!