Lo Stato italiano ha chiesto alle donne di non chiamare diritto la necessità di tener conto della loro volontà in fatto di gravidanza. Non potrebbe chiedere anche ai medici obiettori di non chiamare diritto la necessità di essere compresi nel loro delicato problema di coscienza?
Ogni maternità è un mistero da capogiro: una donna che in poche settimane si fa due. Ogni nascita è un’epifania e ogni epifania accende in cielo una stella cometa. Ogni nascita presuppone un sì, il sì di una donna: il sì di quell’una che misteriosamente si fa due. Nel racconto evangelico, che per tanti è parola ispirata e per tutti narrazione sublime, una ragazza, Maria, interrogata da un angelo, pronuncia subito quel sì. Un sì convinto. E quel “sì” fa di Maria la nuova Eva.
Può accadere però, e accade, che quell’una che sta per farsi due, davanti al miracolo della nascita si spaventi. E così indietreggia, cerca di sfuggire alla nuova realtà di se stessa. A costo di farsi male, di annullarsi; proprio perché non sopporta che la sua vita stia pian piano cominciando a intrecciarsi a quella di un altro/a. Che fare, allora? Come deve reagire la società di cui quella donna è parte? Obbligarla a portare a termine la gravidanza? E semmai come? Oppure, lasciarla sola? Sola o in balía di chi da lei e dal suo problema può trarre un orribile profitto?
Lo Stato italiano risponde con la 194: si ferma cioè rispettoso sulla soglia della sua coscienza. Con questa legge riconosce infatti l’autodeterminazione della donna: ossia riconosce che poiché in fatto di maternità si parla del suo corpo, non può essere ignorata la sua volontà. Del resto anche Dio, abbiamo visto, ha voluto un sì convinto di Maria. Dunque, davanti a una lei che non vuol farsi due, lo Stato italiano chiede aiuto alla medicina. Ma può accadere che anche alcuni medici non vogliano essere personalmente responsabili quando si tratti di interrompere un processo che ha in sé una speranza di vita. E anche lì che fare? Forzare la loro volontà, obbligandoli? Dispensare coloro che ne facciano richiesta dalla collaborazione in caso di interruzione volontaria della gravidanza? E, in tal caso, dispensare alcuni non danneggia, oltre le donne, tutti gli altri medici?
La risposta anche nel caso dei medici non è facile. Ma si possono fare alcune considerazioni. Lo Stato italiano ha chiesto alle donne di non chiamare diritto la necessità di tener conto della loro volontà in fatto di gravidanza. Lo Stato italiano non potrebbe chiedere anche ai medici obiettori di non chiamare diritto la necessità di essere compresi nel loro delicato problema di coscienza? Disarmiamo la lingua. In una collettività che vive in regime di pace l’unica arma fine di mondo è il diritto. Davanti al diritto infatti si arresta il dialogo. E si ricorre al diritto per l’appunto quando il dialogo non può, o non può più, aver luogo.
Ma davvero è così? Mettiamo i due soggetti una davanti all’altro: la donna e la/il medico. Lei un soggetto debole. La/il medico un soggetto sicuramente più forte. Rinunci il medico alla forza del diritto e mostri alla donna il volto della benevolenza, allo Stato quello del dialogo: la soluzione verrà.