La dichiarazione di Donald Trump circa l’irrilevanza ai fini del superamento del conflitto israelo-palestinese della soluzione due Stati per due Popoli, nel gergo dei giocatori di scopa e di scopone, si chiamerebbe spariglio, cioè la giocata del “cartaro” che spariglia le carte. Che scompiglia il gioco. Se si considera anche la sua seconda parte, secondo la quale quel che occorre per la pace è un po’ di elasticità degli Israeliani sulle colonie e che i Palestinesi smettano di educare i bambini all’odio nei confronti di Israele, la dichiarazione sembra quasi una barzelletta. Ma non essendo ad uno spettacolo di cabaret torniamo alla prima parte.
Per decenni si è ripetuto in ogni sede che la soluzione di “due Stati per due Popoli” era obiettivo e linea di azione irrinunciabili. Si è continuato a ripeterlo anche quando, per il moltiplicarsi degli insediamenti e degli avamposti dei coloni sul Territorio Palestinese Occupato, la meta appariva sempre più difficile, sino a che, non potendosi più assicurare la continuità territoriale all’ipotizzato Stato Palestinese, non sembrò pressoché irraggiungibile. Nondimeno, pure contro ogni evidenza, si è continuato a ripetere come una giaculatoria Due Stati per Due Popoli, perché – almeno a mio avviso – serviva sul piano tattico a non dare per accettata la progressiva usurpazione da parte israeliana di consistenti porzioni di territori palestinesi, cosa che invece Israele tendeva a far passare come dato di fatto. Serviva insomma per mantenere il più possibile, come si dice, le “bocce ferme”onde dar tempo e modo di consolidarsi alla prospettiva strategica di uno Stato Binazionale. Prospettiva di non breve momento, che richiede il dispiegarsi di processi lunghi ed impegnativi di trasformazione della società civile palestinese e soprattutto di quella israeliana, che creino le condizioni per una convivenza a effettiva parità di diritti tra due popolazioni su di uno stesso territorio e portino alla formazione di élite politiche, capaci di guidare a compimento processi di tal fatta.
Molti segnali che dinamiche del genere erano e sono in atto da una parte e dall’altra sono andati emergendo: dall’opposizione degli alti gradi militari israeliani alla politica di Netanyahu al breaking the silence dei soldati congedati, dai dissensi sempre più espliciti serpeggianti tra i diplomatici israeliani alle prese di posizioni di intellettuali molto in vista, dagli espedienti dei/delle giovani israeliani/e per sottrarsi agli obblighi di leva alle esplicite obiezioni di coscienza per non prestare servizio militare. Questo in un campo. Ma anche in quello palestinese si sono visti sintomi di dinamiche interessanti: dal movimento di resistenza popolare non violenta, alla formazione di una borghesia insofferente degli intralci che le condizioni conflittuali recano al dispiegarsi delle attività economiche, sino all’intolleranza dei giovani per i conflitti politici interni.
Tutto ciò è ora messo seriamente a rischio dallo spariglio di Trump. L’opzione di un solo Stato da lui caldeggiata non mira, come è evidente, alla fondazione di uno Stato Binazionale, bensì a sostenere le mire dell’attuale Governo Israeliano di annettere allo Stato di Israele gran parte della Palestina, in cambio della concessione alla popolazione residente della cittadinanza israeliana. Cioè incorporando nelle Stato Ebraico il territorio palestinese e la popolazione che vi risiede, con buona pace del principio dell’autodeterminazione dei popoli, delle risoluzioni dell’Onu e di quelle dell’UE.
Che siffatta soluzione non porterebbe ad una situazione di parità di diritti e di condizioni tra Palestinesi ed Israeliani è fuori discussione: basta rifarsi alle denunce sollevate il 30 gennaio scorso in occasione della Giornata Internazionale a sostegno dei Diritti dei Palestinesi del 1948, quelli cioè che restarono sul territorio divenuto di Israele con la Nakba del 1948. Essi, pure in possesso di una carta di identità israeliana, vivono ai margini della Stato e della società israeliani, ancor’oggi sono “bersaglio costante di demolizioni e tentativi di sfollamento” come sta capitando agli abitanti di 45 villaggi beduini nel Negev di cui il Piano Prawer prevede la demolizione insieme alla confisca di 850 mila metri quadrati di terreni ed il trasferimento forzato di 40mila beduini.
Quello che si prospetterebbe per la popolazione palestinese sarebbe dunque un regime di apartheid. E cos’altro ci potrebbe essere in uno Stato Ebraico per una popolazione mussulmana ed in piccola parte cristiana?
Lo spariglio di Donald Trump ha svelato però una situazione almeno in parte non prevista. Il governo israeliano ha accolto la dichiarazione di Trump ovviamente con grande giubilo; i cittadini israeliani però, stando ai risultati di un’indagine riferiti dal TG3, si sono dichiarati per qualcosa in più del 51% contrari alla soluzione di annettere i territori palestinesi ed i loro abitanti allo Stato Israeliano. Sarebbe interessante, ma non sono note, conoscere le motivazioni: se si tratta di diffidenza cioè di non fidarsi di mettersi il “nemico” in casa o della preoccupazione che l’estensione del regime di apartheid darebbe allo Stato Israeliano un’impronta permanente ed indelebile, costituendo un pesante vulnus allo stesso Ebraismo, cosa di cui molti, ma molti ebrei sono seriamente preoccupati. In ogni caso resta il disaccordo di oltre il 51% degli Israeliani. Nell’altro campo si verifica una situazione simmetricamente opposta. Le dirigenze politiche avversano fortemente la prospettiva indicata da Trump, ma meno del 50% della popolazione non l’accetterebbe. La maggioranza quindi sarebbe favorevole. Ciò collimerebbe con quanto è emerso il 6 febbraio scorso nell’incontro avvenuto a Roma, alla Fondazione Basso, con Manal Tamimi e Munther Amira , ambedue del Movimento di Resistenza Popolare Non Violenta. La prima, proveniente dal villaggio di Nabi Saleh, responsabile dei rapporti con la solidarietà internazionale ed il secondo, del campo profughi di Aida, coordinatore dei Comitati Popolari contro il muro e l’occupazione. In quella occasione Munther Amira ha dichiarato di non essere tanto interessato al dibattito su uno o due Stati, quanto a quello sulla parità dei diritti.Si tratta di un segnale ambiguo su cui riflettere. Può interpretarsi in due modi differenti, che non necessariamente si escludono a vicenda: può essere sia la spia di un processo di trasformazione prodromo dell’accettazione di uno Stato Binazionale, sia una manifestazione di sfiducia e di stanchezza di chi sente il peso di una lotta senza molte prospettive. Nel secondo caso sarebbe un segnale preoccupante, perché alla sfiducia di alcuni spesso si accompagna l’esasperazione di altri. E l’esasperazione, si sa, è una consigliera da cui guardarsi, specialmente in una situazione come quella dei Palestinesi che sono soggetti ad una potenza occupante il cui il Governo è nelle mani di formazioni politiche ultra nazionaliste e più che integraliste.Che fare, allora?Bisognerebbe non lasciare i Palestinesi soli, far sentire loro la vicinanza e la solidarietà attiva di una parte almeno dell’opinione pubblica occidentale, affinché non perdano la speranza in una via d’uscita positiva dall’occupazione israeliana; solidarizzare con le loro lotte a partire dalla Campagna Internazionale per il Boicottaggio i Disinvestimenti e le Sanzioni, che andrebbe sviluppata e potenziata perché raggiunga le dimensioni e l’efficacia che ebbe nei confronti del Sudafrica.Occorrerebbe sviluppare una intensa campagna per informare correttamente l’opinione pubblica – cosa che i grandi organi non fanno – sulle vicende dell’occupazione israeliana e sulle continue gravi violazioni della legalità internazionale da parte del Governo Israeliano, perché nascano forti pressione su governi ed istituzioni, tali da indurli ad uscire dallo stato che più che di inerzia è di complicità con quella che cerca di accreditarsi come l’unica democrazia del Medio Oriente essendo invece il paese che ha il record mondiale delle condanne dell’Onu e della stessa UE.A questo punto, qualche altro quesito si impone: qual è il futuro del Medio Oriente se ciò non avvenisse? E quali i rischi per la pace nel Mediterraneo e nel Mondo?
C’è su che meditare.
*della Rete Romana di solidarietà con il Popolo Palestinese