Sconcerto, stupore, indignazione. Mi rendo conto di quanto possa essere difficile, per chi non ha mai messo piede in un circolo del Pd, comprendere le ragioni del suo dibattito interno. Di certo i media potrebbero fare qualcosa di più che stuzzicare o fingere di condividere le reazioni superficiali della gente. In pochi ci provano e ancora meno sono i lettori interessati all’approfondimento. Sulla repubblica di oggi, il direttore Mario Calabresi, anziché arricchire la conoscenza sulle probabili cause di una scissione, si limita a presentarla come “una scelta irresponsabile”. “Non esiste un solo motivo razionale per spaccare il Pd”, attacca il suo editoriale. Forse ha solo dimenticato di cercarli, i motivi.
“Fermatevi, non trasformiamo il congresso in una rapida e immediata conta”. Strano che ne’ Calabresi ne’ altri commentatori comprendano che proprio in questo disperato appello di Bersani è nascosto il vero, razionale motivo per cui ne’ lui ne’ gli altri esponenti della minoranza possono accettare di andare a un congresso subito con le regole attuali. Vi accenna soltanto, intervistato dallo stesso giornale, il sindaco di Bologna, Virginio Merola: “Di cosa ha paura Bersani? Che con questo statuto vinca Renzi? Allora non andiamo da nessuna parte”. Ma che vuol dire? Si può cercare di cambiare, anzi stravolgere, la Costituzione ma non le regole interne di un partito che, con il loro impianto iper-maggioritario, l’emarginazione dei circoli e la cooptazione dall’alto dei quadri dirigenti, hanno di fatto soffocato finora la dialettica interna? Eccolo il motivo: la conta subito, e con queste regole, dimostrerebbe solo che la sinistra è già uscita dalla casa comune. Gli iscritti del 2007 che facevano riferimento ai Ds l’hanno abbandonata e oggi gran parte di loro si trovano tra i delusi dalla politica o nella diaspora della sinistra radicale oppure tra i 5 stelle.
Iscritti ed elettori. Quanto ai primi, basterebbe che la segreteria pubblicasse un elenco di quanti non hanno rinnovato la tessera negli anni scorsi e a fianco quella dei pochi, per lo più di provenienza centrista, che li hanno sostituiti. Il Partito Democratico di oggi non ha più niente a che vedere con quello di 10 anni fa. E’ già il PdR, come più volte ha informato Ilvo Diamanti, sempre su repubblica. Tanto che il nome Renzi veniva usato fino a qualche settimana fa, soprattutto in televisione, come sinonimo del Pd. Così nessuno sa più che cosa sia in realtà quel partito, quali programmi abbia, quali siano i blocchi sociali di riferimento dato che viene apprezzato dalla Confindustria e non dai sindacati, votato nei primi municipi e non nelle periferie.
Apprezzabile la sua predica, direttore Calabresi. Ma per ricostruire una piattaforma che consenta il ritorno e la riconciliazione nel Pd di quanti si sentono traditi dalla politica renziana di questi anni la minoranza chiede almeno cinque o sei mesi per un serio confronto, soprattutto di base. Sui grandi mutamenti sociali, economici, culturali e politici intervenuti nel Paese, in Europa, nel mondo. Sulle prospettive che si aprono con l’abortire della globalizzazione nei frutti amari del nazionalismo, della xenofobia, della disoccupazione diffusa, della crescita delle disuguaglianze. La conferenza programmatica proposta dal ministro Orlando non potrebbe essere soltanto un’operazione di calendario.
Ovviamente non basta il dibattito, serve anche una riorganizzazione radicale del partito, che non si esaurisca in un compromesso fra leader ma restituisca voce e potere ai circoli, ai corpi intermedi, al mondo delle associazioni, della cultura e del volontariato, alle competenze diffuse nel territorio. E’ quello che stanno provando a fare i nuovi soggetti politici nati dalla diaspora del Pd e dai comitati per il No al referendum, D’Alema con Consenso e Pisapia con il “Campo progressista”. Concludendo, serve una verifica in profondità delle ragioni che potrebbero tenere insieme il centro sinistra. Matteo Renzi ha dimostrato di non essere la persona più indicata per farle valere.
da nandocan.it