Superare stereotipi e pregiudizi con una buona informazione, verificando le fonti, rifiutando il linguaggio dell’odio, confrontando diversi punti di vista.
Questo il messaggio veicolato da tre relatori d’eccezione che hanno incontrato gli studenti delle seconde e delle terze classi dell’istituto professionale Planck di Villorba in provincia di Treviso, su iniziativa della sezione veneta di Articolo 21 in collaborazione con la libreria Lovat e i docenti dell’istituto scolastico.
Loretta Napoleoni, economista esperta di terrorismo internazionale, e i giornalisti Enrico Ferri e Roberto Reale, hanno dato vita a un vivace dibattito sul tema dei flussi migratori, cercando di abbattere i luoghi comuni che imperano quando si parla e si scrive di “accoglienza” in una realtà, come quella italiana, in cui la politica sovrasta qualsiasi approccio sulla questione.
Cosa sta a monte del fenomeno migratorio? Napoleoni è netta: la destabilizzazione e il denaro. “Nulla succede per caso. Tutto è scaturito dalla guerra in Iraq dichiarata sulla base di una bugia veicolata dall’allora presidente degli Stati Uniti Bush, la presenza di armi chimiche. E poi c’è il business”.
Loretta Napoleoni spiega come di recente lo Stato islamico abbia mutato le modalità di autofinanziamento: dai rapimenti di turisti, giornalisti o cooperanti rilasciati a seguito del pagamento di riscatti, si è passati al contrabbando di persone altamente traumatizzate, che fuggono da paesi in guerra, dove l’alternativa è morire o diventare terrorista, indicando la Siria fra i fronti più recenti. Argomento che sviscera nel suo ultimo libro che si intitola “Mercanti di uomini”: una nuova forma di criminalità che frutta all’Isis oltre mezzo milione di dollari al giorno, ben più di quanto ricavi con il mercato nero del petrolio. E si badi bene non si tratta di “traffico” di essere umani, bensì – tiene a precisare l’economista – di “contrabbando”, palesando con questo termine la volontarietà dell’atto del soggetto coinvolto ed escludendo a priori che tra i migranti possano nascondersi dei combattenti della Jihad: “E’ la non integrazione, la marginalizzazione che può facilitare l’eventuale reclutamento locale”.
E sull’uso delle parole, si è soffermato Enrico Ferri illustrando lo spirito e i dettami della Carta di Roma, uno dei codici di autoregolamentazione dei giornalisti, che nello specifico nel rapporto 2016 “Oltre il muro” mette al bando l’espressione “clandestino” – che giuridicamente non esiste e che ha in sé una indubbia accezione negativa – in riferimento a chi si trova costretto a espatriare per sottrarsi a situazioni di reale pericolo. Ecco allora che “migrante”, “richiedente asilo”, “profugo” sono in grado di riportare la concreta condizione di chi viene “contrabbandato” ed è vittima di reati e non viceversa.
“Le parole che si usano comunemente – sottolinea Ferri – costruiscono una realtà basta sulla percezione e non sui dati di fatto. Così se chiedi ai cittadini italiani quanti musulmani ci sono ogni cento italiani, la risposta è almeno 20, mentre non si va oltre i 4 (ricerca Ipsos Mori). E questo è frutto anche di una informazione che forza sulle iperboli come ad esempio “invasione”, “esodo biblico” oppure indugiando sulla nazionalità ogni qual volta uno straniero si rende responsabile di qualche delitto”.
Roberto Reale, non a caso, punta sui numeri: in Italia nel 2016 sono entrati oltre 174mila migranti, e in tre anni circa 12.000 persone, uomini, donne, bambini, hanno perso la vita attraversando il Mediterraneo. Gli stranieri presenti nel nostro Paese sono appena l’8,3% – di contro al 14,3% dell’Austria – e la stragrande maggioranza non è arrivata con i barconi e non proviene dall’Africa.
Dov’è l’invasione? Dov’è l’esodo biblico? Esclusivamente nell’informazione, o meglio nel modo in cui viene data/costruita l’informazione, che volente o nolente, rimanda l’idea di lontananza nel tempo e nello spazio. Ma anche nel dibattito politico. E poi c’è il “tanto non succede qui, tanto non succederà qui”. Reale rovescia la prospettiva perché se le parole sono pesanti, ancor di più lo sono le immagini e proietta sullo schermo il video diffuso da Save the children, scaricato da 50 milioni di utenti della Rete. Un pugno allo stomaco. Protagonista una bimba inglese che vive il passaggio da un’esistenza normale in tempo di pace, a un’esistenza traumatica in tempo di guerra, costretta infine a lasciare la Gran Bretagna su una barca dove c’è posto solo per lei e non per la mamma, insieme a perfetti sconosciuti, per poi essere soccorsa su una spiaggia francese a seguito di un drammatico naufragio e trovarsi sola in un campo profughi: inizio e fine scandito dalla festa di compleanno, prima e dopo, dalla gioia alla disperazione. Filmato che ha catalizzato l’attenzione degli studenti con quel processo di immedesimazione che purtroppo avrebbe faticato a esserci se la ragazzina fosse stata siriana o afghana. “Eppure – conclude Reale – la sofferenza è la stessa”.