Settimana di fuoco, quella appena trascorsa, sul titolo “Patata bollente” di Libero rivolto alla sindaca di Roma dopo le accuse dell’assessore all’urbanistica Berdini. Fiumi d’inchiostro con cui l’Italia riscopre l’esistenza del linguaggio sessista nei media: un argomento che in molti luoghi dell’attivismo femminista e dell’associazionismo di categoria viene affrontato tutti i giorni ma che rimbalza da un giornale all’altro, da un talk show all’altro, solo quando in corso c’è un conflitto politico, sebbene sia molto più comune e usato anche da chi, in questo momento, esprime solidarietà a Virginia Raggi.
Il fatto che il giornale di Feltri usi un linguaggio sessista in maniera provocatoria per far parlare di sé, non è una novità. Solo per citare uno dei casi più gravi, questo è lo stesso giornale che quest’estate su Sara Di Pietrantonio, uccisa dall’ex partner a Roma tra l’indifferenza della macchine che passavano mentre lei moriva nell’auto in fiamme, scrisse: “E per gradire nella capitale arrostiscono una ragazza di 22 anni”. Un titolo che Feltri ha difeso, come fa adesso con quello della Raggi, non capendo né dov’era la gravità né perché doveva chiedere scusa: un direttore che malgrado in quell’occasione abbia visto l’intervento dell’Ordine dei giornalisti, continua a scrivere in maniera sessista, rivendicando la sua fiera discriminazione verso le donne. Per quanto riguarda Sara, Feltri rispose: “Non capisco dove stia il problema, la ragazza è stata bruciata viva, proprio arrostita”; mentre per quanto riguarda la sindaca capitolina ha esplicitamente dichiarato che non intende chiedere scusa, e che quando questo appellativo fu rivolto a Karima El Mahroug, alias Ruby, sullo stesso giornale, nessuno si indignò. Con uno salto triplo Feltri quindi ha accostato le vicende di Berlusconi alla presunta storia che Virginia Raggi avrebbe avuto con l’ex capo segreteria Salvatore Romeo – sempre secondo Berdini – asserendo che se “Silvio pagava di tasca i propri vizietti, Virginia detta Giulietta ha attinto ai soldi pubblici per triplicare lo stipendio a Romeo”. Per criticare Raggi – cosa che avrebbe potuto fare sicuramente in un altro modo – paragona cioè un ex presidente del consiglio che per vent’anni ha stigmatizzato, usato, denigrato in tutti i modi il corpo femminile, esaltando ed esasperando il peggio dell’immaginario maschilista in Italia – uno che appellò Angela Merkel come “Culona inchiavabile” – a una sindaca che molto probabilmente ha tutt’altro per la testa, dimenticando che eventualmente l’unica persona ad essere stata vittima del suo linguaggio sessista, oltre Raggi, è stata Karima e sempre grazie alla sua penna (non certo Berlusconi). Un paragone, questo, forse più grave dello stesso titolo.
Ma qualcosa è cambiato anche in Italia e rispetto a quando ogni giorno eravamo sottoposte alle battute di Silvio, ora c’è chi s’indigna più di quanto non si facesse nell’appena trascorso ventennio, a partire dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini (che all’epoca non c’era ma oggi sì), che è stata una delle poche a usare il termine “sessismo” contro il titolo di Libero, oltre a giudizi morali come “schifo”, “volgare”, “pesante”, “disgusto”, “vergognoso”, “deplorevole”, ecc.
Perché, qual è la differenza?
La differenza è quella che passa tra la violenza sessuale come reato contro la morale, a reato contro la persona (legge passata in Italia nel 1996), perché “Patata bollente” non è un’offesa contro la morale in quanto sessualmente allusiva, ma è una discriminazione contro la persona – in questo caso Raggi ma potrebbe estendersi a qualsiasi donna – in quanto appartenente al genere femminile.
Senza dubbio l’uso del sessismo come attacco frontale a donne della politica italiana è una pratica usata in abbondanza per screditare il ruolo che quella donna sta ricoprendo in quel momento attraversando i sentieri sicuri dello stereotipo: “donna che per la sua appartenenza di genere è incapace di ricoprire i ruoli maschili, ruoli di potere che solo occasionalmente possono essere dati in mano a una donna ma che sono maschili per antonomasia”, ma anche “donna che ragiona con l’utero quindi inadatta al potere”, “donna che sta bene a casa e non nelle stanze dei bottoni”, e se è esteticamente in linea con l’immaginario maschile “donna più adatta al letto che non a prendere decisioni importanti”, insomma una delegittimazione basata sul genere in piena regola. Una cosa che per capirla basta chiedersi: se il sindaco di Roma fosse stato un uomo come avrebbero titolato? “pollo alla diavola”?
Come, in maniera “alleggerita”, ha fatto notare Geppy Cucciari sul palco dell’Ariston a Sanremo domenica, in Italia c’è l’abitudine di “giudicare una donna per quello che molti maschi vorrebbero”, a partire da certi titoli di giornale come “i giudici trivellano il ministro Boschi” o “patata bollente”, una modalità talmente comune e usata impunemente, forse in maniera inconscia, che anche tra quelli che hanno espresso solidarietà alla sindaca, appaiono alcuni campioni di sessismo.
Primo fra tutti lo stesso Beppe Grillo che in un tweet chiese se l’ex ministra Maria Elena Boschi non fosse per caso in tangenziale (a fare cosa?), e sul suo blog e su FB espose all’orda la presidente della Camera chiedendo ai suoi: cosa fareste in macchina da soli con Laura Boldrini? Domanda a cui i seguaci dei 5stelle risposero in maniera violenta, tra cui l’incitamento allo stupro, e su cui Claudio Messora, responsabile comunicazione dei pentastellati, scriveva su twitter (e poi cancellava): “Cara Laura, volevo tranquillizzarti… anche se noi del blog di Grillo fossimo potenziali stupratori, tu non corri nessun rischio”, come se esistesse una categoria di “donne stuprabili”.
Oppure Matteo Salvini, capo della Lega, che nell’esprimere solidarietà alla sindaca, ha forse dimenticato quando quest’estate esibiva sul palco di un suo comizio a Cremona una bambola gonfiabile definendola “la sosia della Boldrini”, dichiarando poi che non si sarebbe scusato perché “è lei che è razzista con gli italiani”. Salvini che, dimentico del suo sessismo, oggi – insieme a Gasparri – s’indigna dell’offesa messa su twitter contro Giorgia Meloni fotografata di nascosto e appellata da Asia Argento come una donna “dalla schiena lardosa”, forse perché non sa che non solo esiste la misoginia femminile (la cultura è una sola e il maschilismo fa parte anche dell’educazione di una donna, come dimostra Barbara Palombelli che si schiera pubblicamente con Feltri definendolo “un grande”), ma che Asia Argento – che tra l’altro conduce la trasmissione Rai “Amore criminale” che vorrebbe raccontare il femminicidio – ha anche chiesto pubblicamente scusa, a differenza sua.
Ma per parlare di sessismo solo nell’informazione, escludendo pubblicità, social e media generici, ci vorrebbero pagine e pagine: dall’appellativo “maestrina” – così diverso dal mettersi in cattedra degli uomini che prendono parola e diventano tutti professori – alla descrizione di un femminicidio come delitto passionale, di una violenza in cui si descrive la vita privata di una donna per farla passare come “una che se l’è cercata”, fino alla pubblicazione delle foto in bikini delle donne uccise dai loro partner perché avvenenti, o le allusioni all’incapacità delle donne a fare qualsiasi cosa perché “naturalmente” votate ai lavori domestici o a quelli sessuali, sul linguaggio e gli stereotipi usati per minimizzare o screditare quello che fanno o che vivono le donne, c’è l’imbarazzo della scelta. Il problema è che ancora troppo spesso tutto ciò passa inosservato, come una cosa normale, e quando non è così anche il sessismo viene fatto passare come semplice “volgarità” e strumentalizzato per la bisticciata di turno.