Carissimo “Articolo 21”, dissociarsi dalla piccola grande gaglioffata di “Libero”? Ma certo, senza “se”, senza “ma”. Su Virginia Raggi, il movimento in cui milita, il suo modo di amministrare (o non amministrare) la città di Roma, ognuno può ovviamente pensi, dica e scriva quello che meglio crede; però senza dubbio alcuno ci sono invalicabili “paletti”, costituiti dal buon gusto, dalla buona educazione; dal sapere che si può ferocissimamente criticare un avversario, osteggiarne ogni suo respiro; ma si deve essere consapevoli che libertà di espressione e critica non significa licenza di ingiuria, volgarità, sfregio. Di questo sono fermamente, indefettibilmente. Convinto e sicuro. Al tempo stesso scatta una paradossale dissociazione, che chissà se mi riuscirà di spiegare compiutamente.
Non posso dire di conoscere Vittorio Feltri, il direttore di “Libero”. Sulla mia strada l’avrò incrociato si e no un paio di volte, ed entrambe schierato dalla giusta parte: nella denuncia del massacro giudiziario e mediatico subito e patito da Enzo Tortora (ricordo bene un suo articolo su “La Domenica del Corriere”, dove raccontava la “tombola” che a ogni pranzo e cena i cronisti giudiziari dell’epoca si giocavano, mentre si celebrava quel processo monstre). E poi nei giorni delle polemiche al calor bianco sulla delicata questione del diritto di ciascuno di noi di poter decidere quando una vita è degna di essere vissuta, e quando invece diventa un accanimento doloroso e senza speranza.
Poi c’è il Feltri disposto a vender la sorella pur di macinare copie di “venduto”; anche di lui si può dire quel che si diceva di altri: preferisce perdere amicizie, piuttosto che una battuta. Anche quando si tratta, come in questo caso, di battute grevi, stupide, inutilmente offensive, inaccettabilmente volgari; avvilenti non tanto per chi se la vede rovesciata addosso, quanto per chi la dice. Sbaglierò, ma vedere tutto il putiferio che ha scatenato lo rende contento come una Pasqua. Al pari di Oscar Wilde, immagino Feltri che dice: “non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”.
Per mortificare davvero Feltri e “Libero” avremmo dovuto sottoscrivere tutti un tacito, ferreo patto: ignorarlo, non acquistare il suo giornale, non dire mezza parola di commento. Ma come si fa? Come si può? Tacere significa di fatto legittimare; si deve reagire. Ma reagire, replicare significa elevarlo al nostro livello, o abbassarci noi al suo…
Ecco: questa partita, ci piaccia o no (personalmente non mi piace per nulla), l’ha vinta lui. Vincerebbe ancora di più, credo, se si adottassero provvedimenti di tipo sanzionatorio. Ora in questo mio dire, forse sono condizionato da passate mie vicende: quando accettai per spirito di liberalità di essere il direttore responsabile di un settimanale satirico che dello sberleffo acre e feroce aveva fatto il suo programma e ragione di vita; parlo de “Il Male”. In sei mesi di direzione responsabile ho accumulato qualcosa come una cinquantina tra denunce e querele, e per non farmi mancare nulla un soggiorno a Regina Coeli di una settimana. Poi, piano piano, tutto si è aggiustato, ma sono occorsi un paio d’anni; e per uno sberleffo un magistrato presentò querela: condanna in primo e secondo grado a due anni e sei mesi da scontare, senza il beneficio della condizionale. Per fortuna santa Corte di Cassazione fu presa da una crisi di coscienza, annullò il processo, ne dispose il rifacimento, e tutto si è perso nel mare magnum della prescrizione.
Da quella esperienza formativa ne ho ricavato un mio personale comandamento che mai trasgredirò: qualsivoglia cosa si possa dire sul mio conto, non presenterò mai querela o denuncia. Dico questo per motivare la mia preventiva ostilità a qualsivoglia provvedimento si può pensare di adottare nei confronti di Feltri. Provvedimento peraltro credo inutile: il buon gusto e il senso del limite è un qualcosa come il coraggio di cui parla Manzoni: o ce l’hai, o nessuno te lo può dare (e imporre).
Allora: è giusto condannare e non ci si può sottrarre al manifestare solidarietà; ma al tempo stesso nel farlo si rafforza l’autore della piccola grande gaglioffata; un qualcosa che si vorrebbe in qualche modo sanzionato, ma al tempo stesso la riluttanza all’uso di strumenti punitivi quali che siano. Come contraddizione dovrebbero bastarmi. No, ce n’è un’altra, forse quella che maggiormente sento e a cui sono sensibile.
Assodato che “Libero” e il suo direttore si sono macchiati di quello che tutti hanno ben individuato e denunciato, ci sono molte altre, quotidiane – e ai miei occhi non meno gravi – volgarità; e sono, per esempio, le immancabili vere e proprie molestie cui vengono sottoposti madri, padri, figlie, figli, fratelli, sorelle di vittime di incidenti stradali, di rapine finite in tragedia, che muoiono per disastri “naturali”. Alzi la mano chi non ha a che fare con un capo-redattore che ordina: “Vai a cercare una voce di un parente”, e, alla Feltri, quando torni, ti chieda ansioso se la madre, il padre, la vedova, l’orfano, hanno detto qualcosa, dicono che cosa provano, se perdonano o no l’assassino, se la dicono la fatidica frase: “Chi sa parli”, se piangono o se invece la loro è espressione di impietrito dolore.
Ricorderò sempre un direttore che voleva a tutti i costi che andassi a trovare la moglie di un poveretto che era morto travolto da un treno, nello stesso punto, dove un anno prima era stata travolta la figlia; quell’uomo non aveva cercato la morte, era stato vittima di un incidente, come lo era stato la figlia. Per incredibile beffa, alla guida del convoglio, il primo e il secondo, c’era lo stesso ferroviere. Televisivamente parlando sono stato allevato da un galantuomo che si chiama Alberto La Volpe: la prima cosa che mi disse: “Non voglio vedere in onda, per nessuna ragione, un morto che non sia coperto da un lenzuolo”. Così, quell’altro direttore glielo dissi a brutto muso: “Vacci tu a chiedere a quella donna che cosa prova, mettigliela tu una telecamera piantata sul viso”. Lui, naturalmente, non ci andò, ma trovò chi lo fece al posto mio, e mandato in onda era contento come un gatto che ha appena divorato un grosso topo.
Ecco: Feltri censuriamolo, pure: senza “se”, senza “ma”. Da domani, per favore, cominciamo a denunciare e ad additare tutte queste altre non meno gravi volgarità: sono l’espressione e la manifestazione di un giornalismo sguaiato, piccolo piccolo, che senza che ce ne accorgiamo, ci rendono, giorno dopo giorno, simili a chi oggi condanniamo. E forse, chissà, avremo anche la piacevole sorpresa di scoprire che c’è un pubblico e ci sono lettori infinitamente più civili ed educati di quanto si sia portati a credere.