Prima o poi bisognerà passare dalla Teoria alla Prassi. Fino ad oggi filosofi, economisti, giornalisti, sociologi, hanno interpretato il mondo, ma, prima o poi, bisognerà tentare di modificarlo. Questo dovrebbe essere compito della Politica, che dovrebbe ascoltare, studiare e poi decidere cosa fare e soprattutto verso dove andare. I lineamenti del mondo in cui stiamo vivendo, nonostante la sua infinita complessità, sono abbastanza chiari. Abbiamo un enorme cumulo di merci a disposizione, la globalizzazione ha portato un po’ di ricchezza in parti del mondo che erano state depredate o erano rimaste ai margini del nostro “progresso”, ma nel mondo occidentale ha fatto arrugginire migliaia di fabbriche che sono state delocalizzate alla ricerca di salari sempre più bassi e cospicui vantaggi fiscali. Come al solito, i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, mentre la “classe media”, che pensava di aver lasciato alle spalle l’insicurezza economica, è spaventata e disorientata. La disuguaglianza crescente provoca rabbia e rancore nei confronti delle élite che ci governano. Come se non bastasse, negli ultimi anni si è inceppato –soprattutto in Italia- “l’ascensore sociale” che prometteva il miglioramento sociale ed economico, almeno ai più volenterosi e meritevoli, e così i giovani vanno a cercare lavoro e fortuna all’estero. La misura, tanto spaventosa quanto “immateriale”, di questa profonda ingiustizia sta nei numeri che ci raccontano di 8 super ricchi che posseggono quanto 3,6 miliardi di persone, che compongono la metà più povera della popolazione mondiale. Cifre che tolgono il fiato e rimangono astratte perché si riferiscono a numeri, di soldi e di persone, che possiamo scrivere ma non immaginare. Un tempo la Politica, almeno quella parte che pensava di modificare lo stato di cose presente, magari con un po’ di Liberté, Fraternité e soprattutto Egalité, si è rattrappita. Fallito clamorosamente il comunismo, passato rapidamente da una grande speranza a una cupa dittatura, anche la socialdemocrazia ha perso slancio e sembra destinata alla marginalità politica. Adesso, nelle democrazie più o meno avanzate, chi vota detesta le élites e tutto ciò che puzza di casta e si affida speranzosa a miliardari più volte falliti o a autocrati che possono diventare spietati, ma promettono nuova forza e grandezza e milioni di posti di lavoro. E’ il trionfo del “populismo”, termine che nasce proprio in Russia, nella seconda metà del XIX secolo, e voleva essere l’andata al popolo -un po’ velleitaria- di intellettuali e letterati, e che è stato sconfitto dalla soluzione più “sbrigativa” dei bolscevichi esattamente cento anni fa.
C’è del sarcasmo nella storia se, con una clamorosa giravolta, oggi ci propone il “compagno” Xi Jinping che a Davos, dove si ritrovano i più ricchi ed intelligenti del mondo, difende globalizzazione e libero mercato.
Adesso, dentro una democrazia stanca e spaventata, cresce la voglia di un “uomo forte”, che decida e risolva i problemi con rapidità. Donald Trump è la risposta più clamorosa, che promette di difendere gli operai americani, saluta a pugno chiuso, sorride e fa la faccia feroce, vuole alzare muri alle frontiere, e così, come al solito, protezionismo ritorna a far rima con nazionalismo.
L’Europa, attonita e inerme, sembra incapace di dare soluzioni concrete alla sua crisi e risponde con paura e muri a una migrazione biblica. I “populisti” alzano la voce con proposte semplici e chiare, ma difficilmente applicabili, mentre i partiti tradizionali balbettano e annaspano. Le uniche parole serie arrivano da un vecchio gesuita venuto dal Sud America, che si è fatto chiamare Francesco, che da una parte invita a sospendere il giudizio (noli iudicare), ma dall’altra ricorda che anche Hitler fu votato dai tedeschi e poi portò la Germania alla distruzione. Ma anche queste, per quanto sagge, rischiano di essere prediche inutili.