Un interessante convegnoi organizzato dal Garante per la protezione dei dati personali, lo scorso lunedì 30 gennaio in occasione della omologa Giornata europea, ha parlato di “Big Data e privacy, la nuova geografia dei poteri”. E’ il tema dei temi nell’odierna riscrittura dei confini del mondo, dall’alto del cloud che ci sorveglia: “lotta di classe” dei nuovi oligarchi contro stati e società complici o inermi. E nell’ebete gioia dei tanti sudditi schiavi e felici per un clic.
Lungi dall’essere un algido territorio delle tecniche, il regno degli algoritmi domina il villaggio globale. Anzi. Il capitolo della sovranità, declinato parossisticamente nel lessico politico alla moda, ben poco c’entra con gli sbarchi degli immigrati e con le frequenti grida manzoniane. Come se la sicurezza risiedesse nella regolazione dei barconi degli ultimi della terra, e non piuttosto in un’aggiornata struttura del diritto adeguata all’era delle “sette sorelle”: i cosiddetti Over The Top: Google, Yahoo, Apple, Amazon, Facebook, Microsoft, Alibaba. I superpredatori (definizione di Pedro Domingos, 2015) valgono più di qualsiasi G8 e nulla sfugge al controllo. “Gli algoritmi si combinano tra di loro per utilizzare i risultati di altri algoritmi, e i loro risultati finiscono in pasto a ulteriori algoritmi. Ogni secondo, miliardi di transistor in miliardi di computer cambiano stato miliardi di volte. Gli algoritmi formano un nuovo tipo di ecosistema, un’entità che cresce senza sosta, paragonabile per complessità solo alla vita stessa” (ibidem). Dal trattamento dell’informazione, all’intelligenza, alla genomica, alla stessa costruzione dell’identità digitale, ignota spesso ai diretti interessati, essendo la composizione del mosaico delle tracce invisibili che ognuno lascia di sé.
Il potere cieco dell’algoritmo, secondo il titolo di un’efficace pagina recente de “il Manifesto”, oscilla tra immense opportunità e un’inedita “guerra fredda”. Il dibattito, però, langue o è limitato all’iperspecialismo. L’algoritmo, invece, è un negoziato e urge la riorganizzazione delle culture pubbliche prima che la partita sfugga definitivamente di mano.
In tal senso, il convegno aperto con una seria relazione dal Garante Antonello Soro ha avuto il merito di rimettere in agenda l’immensa questione. Le domande introdotte nella discussione interpellano i poteri formali delle istituzioni, affinché guardino in faccia i poteri reali di questa epoca – la finanza e i signori dei dati. Si sono alternati Franco Bernabè, Giulio Tremonti, Ilvo Diamanti, Enrico Giovannini, Stefano Ceri e Diego Piacentini, commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda digitale. Persino quest’ultimo, cui dovremmo domandare noi – semmai – qualcosa, si è unito all’invocazione di una coordinata politica pubblica. Meglio tardi che mai, chissà.
Tuttavia, una sana autocritica si richiederebbe a chi ha esibito il “digitale” come un brand pubblicitario, invece che come indispensabile orizzonte di ogni esperienza produttiva e dei meandri dei saperi. Con l’eccezione di Anna Finocchiaro, che ha chiuso parlando di
un “condiviso senso del limite” (appunto, un negoziato) ai ruoli femminili (Augusta Iannini, Giovanna Bianchi Clerici e Licia Califano, componenti dell’ufficio del Garante) è stata riservata solo la presentazione degli ospiti. Digitale maschile.
L’Europa ha battuto qualche (timido) colpo. L’Italia al momento rimane un paese di conquista, ancora dominato dall’universo televisivo e da una dieta mediatica ignara di ciò che accade in cielo.