Per chi crede che il mondo debba essere abitato soltanto da persone sane di corpo e di mente, e per tutti gli altri non ci sia posto in una società che deve accollarsi il loro eccessivo peso economico; per chi crede che bisogna agevolare la natura nella selezione naturale degli esseri più deboli e malati, impedendo loro di riprodursi e di diffondere i propri geni tarati; per chi pensa che l’eutanasia, cioè la morte dolce, possa rappresentare una soluzione idonea e dignitosa per accelerare il trapasso alle creature sofferenti su questa terra; per chi pensa che la razza umana avrebbe soltanto da guadagnare eliminando gli sgorbi di natura; per chi crede che un esercito di replicanti di bell’aspetto e di sana costituzione fisica e morale sia il traguardo migliore per l’umanità del futuro; c’è un film in programmazione, Nebbia in agosto, che aiuterà a dissipare rapidamente tali convinzioni, ponendo la domanda di tutte le domande, cruciale e insormontabile: a chi spetterà stabilire chi dovrà vivere e chi no?
Il film tedesco di Kai Wessel è agghiacciante, stringe il cuore in una morsa di angoscia, ma la sua visione ci dona un’incrollabile certezza: amiamo il mondo com’è, e soltanto un criminale demente può fantasticare di volerlo cambiare in nome di principi superiori; vogliamo il mondo come lo abbiamo trovato, con tutte le sue creature difettose, anzi principalmente con loro, che sono la vera garanzia della nostra libertà. Sono i derelitti il sale della terra, i senza speranza, gli infelici, i malriusciti, gli ultimi nella scala sociale; non sappiamo se davvero, come assicura il Vangelo, saranno i primi a salire nel Regno dei Cieli, ma non c’è dubbio che sulla terra siamo tutti uguali al cospetto di Dio. Qualunque sia la nostra concezione di Lui.
Accade nel film – ma la storia è vera, certificata e trascritta in un libro – che nella località di Kaufbeuren, in Germania, al tempo della seconda guerra mondiale, ci sia un nosocomio in cui vengono ricoverati, senza distinzione di sesso e di età, le persone afflitte da menomazioni fisiche e mentali di differente gravità. La struttura è un istituto psichiatrico, ma ospita anche malati con disabilità congenite o traumatiche che li rendono inadatti alla vita ordinaria. Il direttore dell’ospedale, dottor Veithausen (Sebastian Koch), elegante, onnipresente, ben educato, si prende cura di tutti loro con encomiabile sollecitudine, trova per ognuno una parola di incoraggiamento, gioca con i più piccoli come un padre, presta le cure necessarie per lenire le loro sofferenze; ma la struttura si occupa anche di esperimenti scientifici sui pazienti, esegue accurate autopsie ed espianta il cervello di chi muore per inviarlo ai laboratori scientifici di ricerca genetica. Di tanto in tanto alcuni dei pazienti, personalmente marcati dalla stilografica del direttore nella lista dei degenti, vengono trasferiti con un pullman in altre località in cui verranno sottoposti a ulteriori trattamenti medici. Il direttore si tiene accanto due assistenti generici, un giovane sciancato e devoto che presiede alla gestione pratica delle camerate, e un factotum in età che lo affianca in ogni altra mansione, dalla camera autoptica alla stesura a macchina dei referti, dalla manutenzione delle attrezzature alla sepoltura, quando serve, di chi decede. La capo infermiera è una suora cattolica che si spende senza risparmio nell’opera di carità.
Ma dietro la facciata composta, pulita, ordinata, efficiente, c’è una seconda realtà che veniamo man mano a scoprire quando nell’istituto arriva Ernst Lossa, un ragazzo ‘difficile’ di tredici anni che altri istituti di rieducazione hanno scaricato per la sua natura ribelle. E’ di etnia jenisch, una popolazione nomade simile ai Rom e ai Sinti; è orfano di madre e il padre lavora come venditore ambulante, senza fissa dimora. Ernst non capisce perché l’abbiano mandato in mezzo agli ‘scemi’, subisce come un affronto di venir rapato a zero come loro, si scontra con gli altri coetanei perché ‘lui non si fa mettere i piedi in testa da nessuno’. Accetta di malavoglia di rispondere “jawhol”, “sissignore”, quando viene interpellato, e attende ansiosamente che il padre venga a riprenderselo per emigrare insieme in America, come gli ha più volte promesso. E’ già successo che un compagno, suo confidente, abbia lasciato l’ospedale nella lussuosa automobile dei suoi genitori. Ma non sarà così per lui, non essendo suo padre in grado di presentare un certificato di residenza stabile, come richiesto dal regolamento. L’attesa si protrae, ma Ernst è forte, sveglio, abituato a sopravvivere ovunque, e si fa benvolere da tutti. Non si sottrae ai compiti a cui viene assegnato, anche i più raccapriccianti, come ripulire da sangue e liquami il letto chirurgico delle necroscopie. E si presta volentieri a dare una mano nelle immense camerate, riuscendo persino a nutrire una bambina cerebrolesa che si lascia imboccare soltanto da lui. E’ intelligente, attento, osserva tutto e nulla gli sfugge: così non impiega molto tempo a intuire ciò che sta succedendo.
Un ordine di servizio giunto da Berlino, esorta il dott. Veithausen a procedere direttamente alla soppressione di quella tipologia di pazienti che precedentemente si limitava a inviare ai campi di sterminio.
Siamo nel 1944, la Germania è allo stremo, eppure Hitler non rinuncia a perseguire il suo delirio della razza superiore e all’applicazione delle pratiche eugenetiche “per la salvaguardia della salute ereditaria del popolo tedesco”. Disabili di ogni condizione, portatori congeniti di handicap, paralitici, dementi, minorati, ossessi, ritardati, sofferenti di turbe psichiche, storpi, nani, mostri dalla nascita, subnormali, asociali cronici, alcolizzati incalliti, disadattati, balordi refrattari, barboni irrecuperabili, fannulloni accertati, nullafacenti, emarginati, non integrati, vanno semplicemente sottoposti a eutanasia.
E il direttore, integerrimo, esegue; assume una nuova infermiera con pochi scrupoli morali, che sa come trattare i bambini, li uccide con grazia propinando loro uno sciroppo di lamponi in cui vengono disciolte dosi letali di barbiturici. Inoltre, per risparmiare sui farmaci che ormai scarseggiano, lo scrupoloso psichiatra escogita un suo originale metodo di dolce morte, e si reca di persona a illustrarlo in un convegno medico: consiste nell’alimentare i ‘prescelti’ con zuppe di verdura private di ogni sostanza nutrizionale in modo da provocare in poche settimane una perdita considerevole di peso e la morte per fame, pur mangiando tre regolari pasti al giorno. L’acclamazione dei colleghi è unanime.
In breve tempo il piccolo cimitero in fondo al parco dell’ospedale si riempie inspiegabilmente di nuove croci; il nervosismo e la paura dilagano; si ripetono atti di insubordinazione istigati da Ernst durante il pranzo alla mensa; e la situazione generale rischia di precipitare quando la piccola oligofrenica indifesa viene a sua volta avvelenata. La suora caposala riesce a salvarla costringendola a vomitare e nascondendola nella sua cella. Ernst la aiuta nell’impresa, e intanto cerca di sottrarre a quella macchina di morte una sua coetanea epilettica, un’orfana graziosa di cui si è invaghito, ricambiato, e alla quale dona degli scarponcini con le lame, “per pattinare sul lago Michigan, grande quanto il mare”, quando lui, fuggendo, la porterà in salvo con sé in America. Ma a quel punto ormai la sua sorte è segnata, un fregio di penna stilografica viene apposto sul suo nome dal rispettabile direttore dell’ospedale. Un triste giorno un corvo inquieto beccherà alla finestra della camerata, accanto al letto della ragazzina, la quale gli sorride incantata.
Varrà la pena che lo spettatore si trattenga fino ai titoli di coda, per scoprire a quali pene insignificanti, alla fine della guerra, saranno condannati dai tribunali i responsabili di tali inauditi, disumani misfatti, compiuti in un regolare ospedale del Reich. Un suggerimento agli amanti della Settima Arte: osservate bene con quale intensità recita il giovane interprete, Ivo Pietzcker, guardate il suo sguardo, le espressioni del suo volto, diventerà un attore di rango.