Molti osservatori, commentatori e opinionisti si domandano adesso, terrorizzati, che razza di presidente sarà Donald Trump, quali saranno i suoi obiettivi, quali i suoi alleati, quale la sua politica interna ed estera, energetica e ambientale, quale la sua posizione nei confronti dell’Europa e della NATO, sperando, in cuor loro, che i roboanti annunci con i quali il magnate è diventato il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti vengano ricondotti a più miti consigli dalla complessa realtà di un Paese il cui ruolo nel mondo è ben definito ormai da settant’anni.
Sperano, insomma, che abbia ragione Lucio Caracciolo, il quale ha scritto su “Limes” che “il mondo cambierà Trump più di quanto Trump cambierà il mondo”.
Il guaio è che, a nostro giudizio, il direttore della prestigiosa rivista di geo-politica ha ragione da vendere, al che vien da domandarsi: come cambierà il mondo nei prossimi quattro anni?
La realtà, almeno per come si delinea in questi primi vagiti del 2017, ci dice che il discorso di insediamento di “The Donald” a Capitol Hill, con quel misto di populismo cialtrone, proclami anti-establishment e chiari elementi di rottura democratica e istituzionale, sarà probabilmente replicato, a breve, da qualche suo emulo europeo, a dimostrazione che una fase storica si è definitivamente conclusa e una nuova è iniziata, con il suo carico di incertezza, preoccupazione e prospettive tutt’altro che gradevoli.
“The Donald”, in pratica, costituisce lo specchio del nostro fallimento. Lo sentivamo parlare, lo sentivamo distillare tutto il suo odio stucchevole, retorico e colmo di ipocrisia contro coloro che hanno ridotto sul lastrico milioni di persone e trasformato l’economia in finanza, con annesse delocalizzazioni, licenziamenti, fabbriche chiuse e operai mandati a spasso, e ci tornava in mente la sua foto sorridente insieme ai coniugi Clinton; eppure non riuscivamo a dargli completamente torto, da qui la nostra rabbia e il nostro disincanto.
Perché Trump che parla a pochi giorni dalla palese ammissione, da parte dei decisori mondiali riuniti a Davos, nel santuario del liberismo duro e puro, del fallimento di trent’anni di politiche economiche e sociali, Trump che parla dopo che Christine Lagarde si è espressa a favore della redistribuzione della ricchezza e del contrasto a disuguaglianze ormai non più sostenibili, Trump che parla e si definisce la voce degli ultimi e dei deboli, di quell’America profonda e straziata dalla crisi, impaurita dal dilagare del terrorismo islamico ma, ancor più, dall’avvento di una forma di dominio tirannico che ha nei signori di Wall Street le proprie icone, questo Trump è come se ci avesse detto espressamente: “Vi è piaciuto credere alla favola secondo cui la storia fosse finita dopo l’89? Vi è piaciuto illudervi per quasi tre decenni che il sereno vento dell’Ovest avrebbe spirato ancora a lungo, favorendo una crescita illimitata benché a scapito del resto del pianeta? Vi è piaciuto predicare la globalizzazione, diventando apostoli, sacerdoti e cultori di dottrine economiche che consentono oggi a otto persone di possedere lo stesso patrimonio dei tre miliardi e sei di dannati della Terra? Vi è piaciuto, cari progressisti, cari liberal, cari marxisti convertiti sulla via del capitalismo sfrenato e neanche poi così attenuato dalle vostre idee della gioventù, far vostri questi princìpi, fino a sostenere che avessero sempre fatto parte del vostro bagaglio culturale? Vi sono piaciuti, insomma, la libera circolazione delle merci, la svalutazione del lavoro non potendo più svalutare la moneta e l’uomo di Davos, elegante, impomatato e più attento ai titoli di borsa che ai diritti umani? Ebbene, io sono la naturale conseguenza di questa deriva trentennale, i cui nodi, le cui contraddizioni e i cui punti oscuri stanno ora venendo al pettine”. E da notare era soprattutto il compiacimento con il quale il nuovo presidente sbeffeggiava coloro che, fino a pochi mesi fa, non avrebbero scommesso un solo centesimo sulla sua elezione, considerandolo alla stregua di un fenomeno da baraccone, in qualche modo contenibile o, comunque, riconducibile a più miti consigli, nell’alveo di quell’élite di Washington e di New York che credeva erroneamente di ancora in mano i destini del mondo. Si illudevano, inoltre, che, essendo Trump uno di loro, un miliardario della Quinta strada con un patrimonio stimato in 3,7 miliardi di dollari, in fin dei conti facesse scena, ben cosciente di quanto le stesse teorie che contestava nei comizi fossero, in realtà, alla base dell’accumulazione, amorale e assai discutibile, della sua fortuna. Non avevano capito, insomma, come non lo abbiamo mai capito noi parlando di Berlusconi e Grillo, quale fascino eserciti sulle masse impoverite il riccone che rinnega, a parole, la sua stirpe, che si esprime come l’uomo della strada, che rinuncia alla funzione principale della politica, ossia quella di elevare, anche moralmente, gli ultimi e gli esclusi, per porsi allo stesso livello dei mediocri attori delle situation comedy, interpretando gli umori viscerali di un’umanità occidentale che sembra aver rinunciato ad ogni slancio ideale per ripiegare sulla mera gestione del presente, senza speranze né prospettive né valori né alcuna propensione solidaristica o visione del mondo ad ampio raggio.
Gli unici a non essersi ancora rassegnati a questa logica della barbarie sono i giovani, non a caso tra i principali contestatori di Trump e tra i maggiori sostenitori di un socialista concreto come Bernie Sanders; peccato che i gretti vertici di un Partito Democratico allo sbando totale non abbiano avuto l’intelligenza e il coraggio di ascoltarli e oggi si trovino in un deserto che non sanno come attraversare, essendo svanita per sempre l’ideologia clintoniana ed essendo venuto meno anche il milieu nel quale essa aveva prosperato per venticinque anni, lievemente scalfita ma non davvero messa in discussione da un Obama che tra i suoi tanti e indiscutibili meriti non può, purtroppo, annoverare quello di essere stato il riformatore di una struttura ormai inservibile, la cui crisi fu solo ben nascosta dal suo carisma e dalla sua straordinaria empatia nei confronti di quelle minoranze che nell’anno di grazia 2016 hanno, invece, detto chiaro e tondo di non sentirsi rappresentate da Hillary Clinton, quintessenza di una stagione fallimentare e conclusa.
La nostra amarezza deriva, dunque, dal fatto che la sedicente sinistra occidentale, pur avendo versato tante lacrime di coccodrillo per commemorare Bauman, o non l’abbia letto o non l’abbia capito, manifestando una pericolosa incapacità di reagire ad un passaggio d’epoca che costituisce una mutazione globale paragonabile a quella che un secolo fa pose fine al dominio europeo e aprì la strada all’egemonia statunitense.
Venuta meno la fabula dell’America gendarme del mondo, venuti meno gli accordi internazionali che tenevano a freno le pulsioni rivoluzionarie del Medio Oriente, venute meno le promesse e le ambizioni di un’Europa ormai prigioniera di se stessa, ascesi sulla scena globale nuovi attori per nulla disposti a fare sconti e avendo la crisi ridisegnato da cima a fondo i confini del nostro immaginario collettivo, quell’uomo in cravatta rossa che gridava “America first”, per la gioia dei tanti ciarlatani desiderosi di imitarlo per meri interessi di bottega, sembrava addirittura ridicolo nel suo essere, al tempo stesso, la conseguenza e la causa, diremmo quasi il detonatore, del disastro cui stiamo andando incontro.
Al che, riprendendo il discorso iniziale, verrebbe voglia di rispondere a Caracciolo precisando che non sarà né Trump a cambiare il mondo né il mondo a cambiare Trump, in quanto il mondo di fatto è già cambiato radicalmente, generando Trump e numerosi epigoni, pronti a recitare, ahinoi, un ruolo da protagonisti nel corso dell’anno che è appena iniziato.
Una società irrequieta, fragile, sconfitta, priva di ambizioni e di garanzie per il futuro, con le giovani generazioni sempre più precarie e, di fatto, espulse dal consesso democratico, in quanto impossibilitate a partecipare attivamente alla vita civile, politica e sindacale dei vari paesi.
Un Occidente invecchiato, incattivito, drammaticamente conservatore e sfiancato dalla percezione di una catastrofe cui nessuno sembra sapere come fare fronte, tanto meno delle forze progressiste che ormai, sostanzialmente, è assai difficile considerare tali.
Un’America che, come detto, non è più né il gendarme del mondo né la potenza egemone né un faro per gli altri paesi di un’Alleanza Atlantica oggettivamente vetusta e ormai considerata pressoché inutile dallo stesso Trump.
Questo è il mondo che ci attende nei prossimi anni: un mondo nuovo, complesso, fastidioso, senz’altro sgradevole, senz’altro difficile da decifrare e nel quale, diciamolo sin d’ora senza infingimenti, non sarà né semplice né piacevole vivere.
Infine, è doveroso spendere due parole sul vero vincitore di questa partita: Vladimir Putin, nuovo zar di Russia, capace di arrecare all’Occidente gli stessi danni che esso aveva arrecato alla dissolta Unione Sovietica nel biennio fra l’89 e il ’91 e, ancor più, a cavallo fra gli anni Novanta e i primi anni Duemila.
Consideratela la vendetta della storia: una nemesi che ci siamo meritati e che non possiamo eludere nelle nostre analisi, ben coscienti del fatto che nessun baratro è mai passeggero e che nella disputa filosofico-politologica fra Croce e Gobetti in merito al fascismo avesse senz’altro ragione il secondo, ritenendolo non una parentesi ma l’autobiografia della Nazione. Nel nostro caso, di un’intera parte del mondo.