Il nuovo anno si è aperto con i corpi di Rosanna Belvisi, Teresa Cotugno e Tiziana Pavani, uccise da partner in un contesto di relazioni intime, mentre Gessica Notaro e Yleni Bonavera, sono state aggredite e sfregiate da ex fidanzati che avevano lasciato. Femminicidi per i quali ancora troppi giornali parlano di “amore malato”, “delitto passionale” e “movente della gelosia”, quando invece sarebbe più corretto parlare semplicemente di violenza nei rapporti d’intimità. Donne che, come Rosanna Belvisi, subivano la violenza del partner probabilmente da tempo e che malgrado i campanelli d’allarme, non sono scappate ma non per vergogna o per stupidità, semplicemente per paura, o per inconsapevolezza del pericolo reale, o per sfiducia nei confronti della capacità di intervento delle istituzioni. Una paura dimostrata dal fatto che a venire uccise sono anche quelle che denunciano e che, non essendo state protette in maniera adeguata dalle istituzioni preposte, alla fine sono state annientate dalle ritorsioni del partner. Non è un caso infatti che molte sopravvissute, anzi soprattutto loro, dichiarino spesso che per uscire dal tunnel della violenza, sono entrate in un altro tunnel, quello della giustizia italiana, dove hanno faticato per essere credute e protette: vite stravolte (perché di questo si tratta) senza mai essere sicure di non avere più conseguenze dal partner, comprese le minacce di morte.
Una situazione in cui malgrado sia lo stesso Stato italiano a non essere consapevole del rischio che corrono le vittime di violenza, si continua a imputare alle donne la responsabilità di non essere consapevoli della violenza subita, di non essere capaci di denunciare e di non riuscire a scappare da un partner violento.
Ma a che punto dell’agenda è oggi il contrasto alla violenza maschile sulle donne per il governo italiano? Siamo sicure che questo governo abbia più consapevolezza di queste donne?
Malgrado le buone leggi esistenti, ancora troppe spesso non applicate in Italia, il governo italiano continua a driblare sulla questione del femminicidio con proclami e azioni circoscritte senza avere però una reale visione d’insieme, senza coinvolgere attivamente la società civile che lavora sul territorio nazionale, e quindi senza mettere a punto un contrasto efficace che in questo momento potrebbe partire dall’implementazione della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ratificata e in vigore nel nostro Paese ma chiusa dentro un cassetto. Attualmente, a parte i centri antiviolenza, le realtà costruite dalle donne stesse e alcuni pezzi istituzionali più preparati e con personale “sensibile” o formato sul tema – per esempio alla Procura di Roma, in alcuni tribunali e in troppo scarsi commissariati – quello che succede in Italia è un intervento a macchia di leopardo per cui se capiti bene, te la cavi, ma se capiti male, peggio per te.
E questo per la confusione che ancora persiste sul fenomeno, dimostrato per esempio dall’attuale Piano antiviolenza nazionale, succeduto a quello varato dalla ex ministra delle pari opportunità, Mara Carfagna, e passato di mano in mano – con diverse traversie dopo le dimissioni della ex ministra Josefa Idem che passò le redini alla viceministra del lavoro, Cecilia Guerra, durante il governo Letta, e poi alla deputata Giovanna Martelli, consigliera di pari opportunità dell’ex presidente del consiglio, Renzi – e che è arrivato fino all’attuale delega a Maria Elena Boschi, prima ministra delle riforme costituzionali e ora sottosegretaria dell’attuale presidente del consiglio, Paolo Gentiloni.
Un “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere” (come previsto dall’articolo 5 della legge 119), che ha avuto la sua incubazione in un lungo momento di confronto nel tavolo interministeriale e una presenza timida, nonché limitatissima, della società civile che fin dalla sua presentazione, nel maggio 2015, ha contestato fortemente questo testo, tanto da farlo nascondere nel cassetto da chi lo aveva creato. Gruppi che riguardo questo Piano hanno sottolineato che qui “il ruolo dei centri antiviolenza risulta depotenziato in tutte le azioni e vengono considerati alla stregua di qualsiasi altro soggetto del privato sociale senza alcun ruolo se non quello di meri esecutori di un servizio”, che “la distribuzione delle risorse viene frammentata senza una regia organica e competente e che quindi, non avrà una ricaduta sul reale sostegno dei percorsi di autonomia delle donne”, e infine che “il sistema di governance delineato nel Piano implica e non garantisce il buon funzionamento di tutto il sistema nazionale e pone inoltre problemi giuridici di coordinamento a livello locale”, vanificando “il funzionamento delle reti territoriali già esistenti indispensabili per una adeguata protezione e sostegno alle donne”.
Sui motivi profondi della sua inefficienza si è scritto molto in un anno e mezzo ma nessuna delle istituzioni coinvolte ha mai risposto in merito alla questione, tanto che oggi, dopo la manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne che a Roma ha visto scendere in piazza 250mila persone il 26 novembre, il gruppo promotore della mobilitazione, “Non una di meno”, ha scelto di redigere un Piano antiviolenza alternativo, formando tavoli di elaborazione con una partecipazione che ha fatto incontrare circa 1.400 donne il 27 novembre, subito dopo la piazza.
Un tema poco affrontato, quello del Piano nazionale, ma fondamentale per il contrasto al femminicidio, di cui si parlerà a Roma stasera, martedì 17 gennaio alle ore 18, presso la biblioteca di Hub Culturale Moby Dick (Via Edgardo Ferrati 3A), con Vittoria Tola (Udi – Unione delle Donne in Italia), Titti Carrano (Presidente D.i.re – Donne in rete contro la violenza), Maria (Milli) Virgilio (Avvocata e docente di Diritto Penale presso l’Università degli Studi di Bologna) e Oria Gargano (Cooperativa Be Free, Rete IoDecido). Un confronto organizzato da “Non una di meno”, sia per capire i limiti dell’attuale Piano, sia per illustrare i lavori in fieri per la scrittura un Piano Antiviolenza femminista. Un appuntamento pubblico e aperto, che dopo il successo della manifestazione del 26 novembre e la nascita dei tavoli, continuerà la sua azione con un secondo incontro nazionale a Bologna il 4 e 5 febbraio e lo sciopero mondiale delle donne l’8 marzo 2017.