Alla vigilia dell’intronazione di Donald Trump sullo scranno più importante del mondo, l’orizzonte dell’umanità appare cupo. Il nuovo Presidente americano va ad affiancare capi di Stato come Xi Jingping, Vladimir Putin, Narendra Modi e loro epigoni come Recep Tayyp Erdogan, più vicino all’Europa, o Rodrigo Duterte, dalle parti dell’Estremo Oriente: tutti accomunati dall’esercizio della funzione pubblica in versione assolutistica ed autoreferenziale. Non si sentiva proprio la necessità che anche gli Stati Uniti d’America aderissero a quel gruppo, tanto più vi approdano con un personaggio che appare del tutto impreparato a gestire gli enormi poteri di cui disporrà, non amato dall’esercito burocratico di impiegati che dovrà comandare, alieno rispetto alla gestione della cosa pubblica.
Il vero problema con Trump è che risulta del tutto privo di quell’allenamento quotidiano essenziale a pensare alla politica come al bene comune perché ha speso tutta la sua vita nel settore privato. La differenza l’abbiamo vista proprio in Italia con il governo affidato a Silvio Berlusconi: un ventennio trascorso nell’immobilismo delle riforme e dell’economia, con grida di innovazioni mai attuate e promesse di sviluppo mai mantenute. Un lungo periodo impiegato più a tirar fuori il premier dai guai che egli stesso si procurava, che ad affrontare e superare i problemi della gente.
Tutti i Berlusconi, come tutti i Trump di questo mondo, sono prevedibili nella loro incapacità di pensare al bene altrui: è una questione di DNA, di formazione. Chi dedica gran parte della propria vita all’impresa e al profitto, sviluppa l’istinto all’affermazione della propria personalità, alla ricerca di qualunque metodo per sbaragliare la concorrenza, alla competitività più spinta verso il successo. In breve: sviluppa un carattere combattivo e assertivo che poco si concilia con la politica democratica, fondata sull’ascolto e la comprensione delle ragioni degli altri per addivenire all’equo compromesso delle posizioni nel superiore interesse del bene collettivo.
Si potrebbe dire che quella appena esposta è un’idea utopistica della politica, più concretamente definita “sangue e merda” da un esperto (Rino Formica) che ebbe poi modo, nel 2003, di specificare meglio il concetto: “La politica è per gli uomini il terreno di scontro più duro e più spietato. Si dice che su questo campo ha ragione chi vince e sa allargare e consolidare il consenso, e che le ingiustizie fanno parte del grande capitolo dei rischi prevedibili e calcolabili”, ma non è necessario essere d’accordo con queste parole che sembrano avvicinare l’esperienza politica alla lotta per la supremazia economica.
Abbiamo altri esempi che, invece, hanno dimostrato slanci umanistici e umanitari in capi di Stato come Angela Merkel in Europa e lo stesso Presidente uscente Barak Obama negli Stati Uniti. Ed è proprio l’esperienza obamiana appena vissuta in America che rende più incomprensibile la scelta di Donald Trump a sostituirlo. Si tratta di un ribaltone a centottanta gradi condito di odio e di rabbia, di frustrazione e delusione, ma è facilmente prevedibile che questi stati d’animo di aggraveranno sotto “l’uomo con una nutria in testa”, come l’ha definito Curzio Maltese su “Il Venerdì” di Repubblica.
L’insuccesso della presidenza di Donald Trump per gli americani è scritta nel suo DNA di imprenditore: utilizzerà i poteri di cui disporrà alla ricerca del suo personale successo e non di quello dei governati. Non perché è cattivo, ma perché la sua evoluzione è stata darwinianamente costruita così, allo stesso modo di colui che entra nella gabbia del leone e finisce sbranato non perché il leone ha fame, ma perché ha l’istinto della fiera.
Il più grave problema è che non sarà la sola America a soffrire la presidenza di Trump, ma il mondo intero e l’Europa prima di tutti. In Europa ci siamo abituati, dal dopoguerra in poi, ad avere affianco un’America solida e generosa, in buona sintonia con i principi che caratterizzano l’area cosiddetta occidentale in contrapposizione con l’esercizio dei poteri dispotici e totalitaristici delle altre potenze mondiali. Se ora, invece, anche gli Stati Uniti verranno governati in bianco e nero e senza toni di grigi, resterà solo l’Europa a reggere il vessillo di quegli ideali, peraltro a sua volta indebolita dal diffondersi dei populismi.
Ma se l’America è così importante per il sostegno dei valori occidentali della laicità e della democrazia, valori che possono tuttora essere riassunti nei principi della Rivoluzione francese (1789) e dell’Illuminismo: libertà, fraternità ed eguaglianza, perché il Presidente degli Stati Uniti lo devono eleggere solo gli americani?