Il fondamentalismo islamico non sembra temere l’intervento armato della spuria alleanze tra le potenze regionali, Turchia, Iran, Russia e stati arabi del Golfo, da una parte, e la presenza logistico-satellitare degli americani, dall’altra. Seppure ridimensionato sul campo di battaglia nella sua espansione dentro la Siria, la Libia e l’Iraq, il Califfato dell’ISIS, nonostante perda pezzi e influenza presso le popolazioni, riesce ancora a organizzare la propria trama di terrore in Medio Oriente e in Europa.
Certo, oltre ai “lupi solitari”, alle schegge impazzite e sempre più improvvisate dell’ISIS e di altre formazioni islamiste, occorre prendere atto che stanno rialzando la testa anche nuclei storici del rivoluzionarismo panarabo fin nei territori controllati da Israele di Netanyahu e dalla Russia di Putin. Il “vaso di Pandora” aldilà delle sponde del Mediterraneo è sempre più in procinto di esplodere col suo carico di morte, sangue e destabilizzazione.
Nella Turchia del “Califfo contro-golpista”, il dispotico e assolutista Erdogan, la violenza sta prendendo le sembianze del “terrorismo di stato”, insieme agli attacchi dichiaratamente organizzati dal Daesh e dall’ala più intransigente dell’irredentismo curdo. Un tempo terra di passaggio per il reclutamento degli affiliati all’ISIS e per il trasporto e la vendita clandestina di armi e petrolio, la Turchia ora per calcoli geopolitici di futura influenza ottomana nello scacchiere (comprendente la Siria e l’enclave curda nell’Iraq), ha cambiato rotta, alleandosi con la Russia e con Assad. Ma ha importato instabilità e terrorismo, miste ad una “strategia della tensione” che riporta agli anni del pre-golpe militare del 1980. La distruzione di Aleppo e altre città siriane, con la scia di sangue di decine di migliaia di civili e centinaia di migliaia di profughi ammassati tra i campi gestiti dalle autorità turche, che in cambio hanno bloccato il loro flusso ricevendo dall’Unione Europea alcuni miliardi di euro, sta esasperando la ribellione fondamentalista.
Nel frattempo, si riaccende la guerriglia palestinese in Israele, dove il governo Netanyahu reazionario e irriguardoso nei confronti delle delibere ONU, prosegue nella politica suicida e provocatoria degli insediamenti e della costruzione di edifici nelle zone a predominanza araba. Riprende così vigore la propaganda vittimistica e antisionista degli integralisti di Hamas, sempre più padrona del campo rispetto all’avversario politico laico e moderato di Al Fatah: nuovi atti terroristici sullo stile ISIS e politica di sostegno alla lotta dei fondamentalisti del Califfato. La fragile tregua tra Israele e i territori palestinesi rischia così di frantumarsi, alla vigilia di una politica aggressiva e anti-islamica preannunciata dalla nuova amministrazione americana di Trump: le forze propense alla risoluzione pacifica del conflitto, in campo palestinese, come in quello israeliano, rischiano quindi di essere emarginate e travolte dall’escalation armata.
Sta di fatto che domenica prossima a Parigi, dove si terrà una nuova Conferenza internazionale di pace per il Medio Oriente, promossa dal presidente francese Hollande, il riottoso Netanyahu ha fatto già sapere di non voler incontrare il presidente palestinese Abbas, proprio per ribadire che la “questione israelo-palestinese” è un affare interno a Gerusalemme. Ovviamente se così fosse, il conflitto potrebbe riesplodere, anche perché nulla di buono trapela dai segnali diplomatici nella politica estera oltranzista di Trump né dalla rinnovata aggressività militare israeliana ai confini con la Siria, territori a forte presenza delle milizie sciite degli Hezbollah, ideologicamente e militarmente collegati ad Hamas.
L’Europa, nel frattempo, resta sotto assedio. Le sue sponde a Sud del Mediterraneo sono sempre più increspate dalle lotte tra le varie fazioni libiche, interessate a spartirsi l’eredità politica e petrolifera di Gheddafi, anche con l’arma ricattatoria degli sbarchi in massa dei migranti verso Italia, Malta e Spagna.
Intanto, una via d’uscita potrebbe essere quella di proporre una sorta di triangolo paneuropeo comprendente Turchia e Israele, invece della solita litania dei due stati per due popoli. Questa soluzione pilatesca dal 1967 in poi non ha risolto il conflitto regionale né spenta la polveriera mediorientale, che anzi con l’andar del tempo si è estesa e ha preso molte sembianze (guerre Iraq-Iran, Iraq-Kuwait, Iraq-resto del mondo, guerra civile in Libano e in Siria, lo sconquasso dello Yemen, la nascita e il proliferare del Daesh, l’epilogo infuocato della “Primavera araba”), producendo una destabilizzazione allargatasi fino all’Europa con la piaga del terrorismo e la sterzata a destra, populista e neo-identitaria in molti stati dell’UE.
L’Europa non può “lavarsi le mani” pilatescamente! Deve riprendere l’iniziativa pacifica e lungimirante di stabilizzare l’intera regione mediterranea, con una proposta coraggiosa anche se rischiosa: quella di affiliare Turchia e Israele (secondo i confini stabiliti dall’ONU), proprio mentre gli interessi geopolitici della nuova amministrazione Trump tenderà a stringere alleanze di interesse tra le due potenze, Usa e Russia, e riportare indietro la clessidra della storia, verso orizzonti di fuoco.
Un’affiliazione all’Unione Europea, permetterebbe di arginare i rigurgiti militaristi. Tramontata definitivamente l’epoca dello sciagurato accordo anglo-francese Sykes-Picot del 1916, che tanti conflitti ha procurato, senza mai pacificare realmente la regione, creando l’espansione economico-finanziaria e militare dei dispotici stati tribali arabi, dal Golfo Persico fino al Mar Nero, ora si rischia una nuova spartizione delle sfere di influenza con la Turchia del “contro-golpista” Erdogan, intenzionato a riprendersi alcune regioni nel ricordo dell’Impero Ottomano. Mentre l’Iran sciita vuole appropriarsi dei territori petroliferi iracheni più ricchi e stringere d’assedio Israele; le oligarchie fondamentaliste del Golfo vorrebbero continuare a giocare sui due tavoli (accordi economici e finanziari con gli occidentali, finanziamento sotterraneo dei gruppi terroristici); e la Russia dello zarista Putin vorrebbe diventare il garante della pacificazione, come nuovo ras controllore dei gasdotti, delle pipeline e dei destini politici di quell’immensa regione, anche per tenere soggiogate le popolazioni interne a predominanza islamica.
Forse questa proposta, che si sta facendo strada in alcuni settori progressisti europei, farà storcere il naso a quanti, con lo sguardo ancora rivolto ad un passato gauchista, terzomondista e palesemente antisionista, ritengono che Israele debba essere indicata come l’origine di tutti i mali nella zona, mentre i palestinesi andrebbero visti come i soli, veri “martiri” e quindi in qualche modo compresi nelle loro azioni terroristiche e nella loro volontà di “distruggere lo stato di Israele”, perché gli autentici abitanti dell’antica Palestina. La storia insegna, però, che solo lungimiranti accordi di pace, dove gli uni e gli altri rinunciano ad alcune rivendicazioni ancestrali, possono far cambiare un bellicoso destino deterministico.