“L’assicurazione del Suv di Massimiliano ha pattuito con la famiglia del ciclista un risarcimento di 218.976 euro. Importi come questo vengono calcolati valutando parametri specifici: l’aspettativa di vita di una persona, la sua potenzialità di guadagno, la quantità e la qualità dei suoi legami affettivi. I periti assicurativi lo chiamano il capitale umano». Con questa frase agghiacciante nei titoli di coda, si chiudeva il noir amaro di Paolo Virzì, “Il Capitale Umano”, appunto. Una “tragedia greca” della Brianza, dove le vittime e i carnefici sono gli stessi individui. Il film capolavoro del regista fiorentino gira attorno alla morte di un cameriere, investito, mentre di notte, dopo il lavoro, torna dalla sua famiglia in bicicletta, inconsapevole di un mondo spregiudicato, che avrebbe fatto di tutto per insabbiare il colpevole della sua dipartita. Un’immagine forte. L’assist, utile ad introdurre un altro metro valutativo; certo meno drammatico, ma comunque ingiusto: il cosiddetto “Equo compenso” per la categoria dei giornalisti. Quella strana valutazione, per la quale “oggigiorno – scriveva Oscar Wilde – si conosce il prezzo di tutto, ma non si conosce il valore di niente”. Per chi non lo sapesse, queste le tariffe minime stabilite: 20,80 euro a pezzo per i quotidiani con una media di 12 articoli al mese, 6,25 euro per agenzie (con un minimo di 40 segnalazioni/informazioni al mese) e web aumentati del 30% con foto e del 50% con un video. Se la produzione giornalistica è maggiore, però, si procede per scaglioni e i pezzi successivi sono retribuiti in misura inferiore. Insomma è molto magro “Il capitale umano” di un giornalista!
Nel 2017, come responsabile del presidio della Campania di Articolo21 (succedo con onore al pioniere Carlo Verna), vorrei occuparmi soprattutto di questo, di denunciare il precariato giornalistico nella mia dilaniata regione, dove le magre cifre destinate ai collaboratori tendono, quest’anno, addirittura a diminuire. Se, come è scritto nella Carta di Firenze, “i colleghi in precariato, possono far rispettare con difficoltà le regole deontologiche”, allora c’è un problema serio per la libertà di stampa. E non mi venga a dire, qualche presidente, direttore, editore che, “è importante far circolare la firma”. Qui si parla di dignità in uno sfruttamento quotidiano, dove la categoria, non soltanto non guadagna, ma, addirittura, ci rimette…
Un tempo Montanelli diceva “sempre meglio che lavorare”, adesso la frase giusta sarebbe: “Sempre meglio andare a raccogliere pomodori”. Ma al di là di ogni imbonimento poetico, sul valore della scrittura e della fama, parliamo di numeri e di equità con il reale costo della vita… Parliamo della morte del lavoro intellettuale.
Iniziamo con la testata “Il Mattino”, il maggiore quotidiano della città. Significativa la diminuzione drastica del compenso in un settore come “Cultura e Spettacoli”, che fino a due anni fa era di 50 euro (lordi) ad articolo, prima scesi a 45, poi a 40; infine arrivati nel 2017 a 34 (cioè 27 netti per un taglio totale di oltre il 30% in 24 mesi). Poi i 10 euro (lordi) del sito web e i 25 euro (lordi) della cronaca (con tetto mensile massimo di 20 pezzi). Per tutte queste fasce non si fa distinzione per la grandezza degli articoli, per la tipologia e se sono nelle pagine nazionali o locali.
Rispetto a questo compenso, propongo la giornata tipo di un cronista precario. Per seguire una conferenza stampa, tra andata e ritorno etc. se ne andranno almeno tre ore; tornato a casa, il povero giornalista (che nel frattempo si è pagato da solo il trasporto ed ha anche dovuto provvedere al suo pranzo), attenderà le misure per l’articolo da scrivere in redazione, che possono arrivare anche alle 20. Mettiamo il caso debba produrre quattromila battute (per esempio una vetrina di Cultura nazionale), impiegherà, minimo, altre due ore; poi dovrà cercare le foto, inviarle al giornale. Si confronterà con il redattore sul titolo, la didascalia. Ancora trenta minuti. Siamo già a quasi sei ore di lavoro. Ossia circa cinque euro all’ora, meno dei sette di un cameriere o una baby sitter (a proposito chi ha un figlio, sicuramente non potrà permettersi, una persona che lo accudisca, perché andrebbe a rimetterci ulteriormente).
Per la testata “Corriere del Mezzogiorno” (Corriere della Sera) il compenso lordo è di 6.30 euro sotto le duemila battute, superate le quali e, per qualsiasi grandezza, arriva a 19.27 euro. Quindi per le stesse quattromila battute in Cultura, le identiche sei ore di lavoro, un articolo sarà pagato 15,42 al netto. In pratica circa due euro all’ora, molto meno di un lavoratore in un call center, che porta a casa 450-500 euro al mese, per tre ore al giorno di lavoro. Più vicino al già citato raccoglitore di pomodori, che pure è sfruttato, ma almeno lo sanno tutti…
Dai 5 ai 20 euro (lordi) per il compenso dei collaboratori di “Repubblica Napoli”. Nello stesso calcolo siamo sempre a poco più di due euro all’ora. La parte campana di Repubblica nazionale ha, però, contrattualizzato alcuni collaboratori, con uno stipendio mensile di 1000 euro (lordi).
Una soluzione, in questo momento di crisi generale, potrebbe essere quella di garantire ad un gruppo di precari validi, uno stipendio minimo, ma almeno dignitoso, per poter “produrre” un’informazione migliore. Anche perché alcune firme (non sempre così autorevoli), per un solo articolo percepiscono cifre, che i poveri collaboratori riescono a portare a casa in un mese di duro lavoro.
Già nel 2011 i dati erano preoccupanti nello scrupoloso dossier redatto dal “Coordinamento giornalisti precari della Campania”, dove monitorando per un breve periodo di tempo (esattamente dal 13 al 27 giugno 2011) i tre maggiori quotidiani della città di Napoli: il“Mattino”, “La Repubblica”, “Corriere del Mezzogiorno”, si era evinto che “il 72% di giornalisti che hanno firmato pezzi in questo lasso di tempo rientra nel variegato universo dei collaboratori (157 firme), il 24% (fa parte della redazione (53 firme), mentre il 5% di giornalisti che firmano gli articoli sono in pensione (10 firme)”. In pratica il giornale lo fanno i “bastonatissimi” precari. Ma mi soffermerei soprattutto sui pensionati, che a tutti gli effetti hanno, in troppe redazioni, le stesse mansioni dei redattori. Per cui, nonostante percepiscano la pensione dall’Inpgi, levano spazio alle nuove leve. Se in Veneto gli stessi si tassano, per aiutare i giovani colleghi, qui da noi, molte storiche firme, sgomitano con i nuovi arrivati.
Uno scenario mortificante, dove fare informazione seria, vivere, dopo anni di studio e gavetta, con un vero stipendio, è impossibile. Vorrei far sentire la voce dei precari, attraverso dibattiti, proteste, tavole rotonde ed ogni strumento necessario a una rivalutazione di questa categoria.
Sempre riguardo alla libertà di stampa, continuerò nel 2017 ad occuparmi, di “Imbavagliati”, il mio Festival Internazionale di Giornalismo Civile, che si interfaccerà con la testata “Aricolo21”. Scopo della manifestazione (alla sua seconda edizione nel 2016) e che tra pochi giorni diventerà una testata on line, è quello di dare la possibilità ai giornalisti, che operano in nazioni dove la censura dittatoriale impedisce la libera espressione o dove il contesto sociale li pone in costante pericolo di vita, di poter raccontare la loro verità e confrontarsi con i colleghi italiani. La mehari di Giancarlo Siani e lo slogan “Chi dimentica diventa il colpevole” sono i simboli del progetto per la libertà di stampa, che fin dalla prima edizione, si è tenuto al Palazzo delle Arti di Napoli (Pan), lì dove la macchina/simbolo è custodita. Nel 2016 il festival, è stata realizzato in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli e con la Fondazione Polis, concludendosi con il Premio Siani, dedicato nel 2016 a Giulio Regeni.
Proseguirò poi, attraverso iniziative solidali, nel creare sinergie con diverse associazioni, che operano attivamente nelle periferie napoletane.
“Non si imbavaglia la Legalità” sarà un laboratorio di un giornale destinato ai bambini delle quinte elementari, in collaborazione con professionisti del ramo, che rientra sempre nel progetto di “Imbavagliati” e partirà a gennaio.
Dopo il successo mediatico di “Nome in codice Ceasar”, una selezione delle immagini scattate da Caesar, pseudonimo che protegge l’identità di un ex fotografo della polizia militare del regime siriano, il cui incarico, dal 2011, era quello di fotografare i corpi dei detenuti uccisi dalle torture nelle carceri siriane, mi auguro di supportare in Campania altre testimonianze simili. Dando voce agli ultimi, nel nome di “Articolo21”.
A settembre del 2017 si svolgerà la terza edizione di “Imbavagliati”, che vorrei (così come suggerito, durante il suo intervento al festival, da Giuseppe Giulietti), diventasse anche un contenitore di tutte quelle iniziative dedicate alla libertà di stampa. Perché “l’unione fa la forza” in una lotta sempre più difficile.