Sintesi della relazione al convegno “Una legge per fermare le querele temerarie” (Roma, 14 dicembre 2016, FNSI – Articolo 21)
A oltre due anni dall’allarme lanciato dal Relatore speciale dell’Onu sulla promozione del diritto alla libertà di opinione e di espressione, Frank La Rue (oggi è David Kaye), sugli attacchi giudiziari ai giornalisti italiani, nulla è cambiato. Il Relatore speciale, nel rapporto adottato dal Consiglio per i diritti umani il 29 aprile 2014 (A/HRC/26/30/add.3), a seguito della visita effettuata in Italia per verificare il livello della libertà di stampa nel Paese, aveva denunciato l’assedio subito dai giornalisti, vittime di querele, di azioni temerarie e pretestuose, avviate senza alcun reale fondamento, con il solo scopo di intimidire i cronisti, in particolare quelli investigativi. Evidente che colpire i giornalisti con continue azioni giudiziarie pretestuose è una spada di Damocle per i cronisti che, assediati, potrebbero rinunciare a divulgare fatti scottanti di interesse generale. Con un effetto a catena sugli editori, non disponibili, non fosse altro che per ragioni economiche, a impegnarsi in lunghe diatribe giudiziarie e a sostenere spese, anche legali, molto elevate e questo anche quando un procedimento si chiude prima di arrivare a sentenza. Senza dimenticare l’impatto negativo per ogni sistema democratico perché un giornalista, continuamente intimidito da querele e azioni civili di risarcimento con richieste economiche esorbitanti, potrebbe rinunciare a far conoscere fatti, primi tra tutti quelli di corruzione, alla collettività. Chiare le parole del Relatore Onu secondo il quale “Even if claims are dismissed at the preliminary hearing, the economic impact of the expenses generated by various lawsuits can intimidate the journalist or the media vehicle, with repercussions for the work of the entire press”.
Proprio per sconfiggere questa piaga che deriva sia dalle azioni penali per diffamazione sia dalle azioni in sede civile per ottenere un risarcimento, il Rappresentante speciale aveva chiesto all’Italia di adottare una legge per imporre a coloro che intraprendono queste azioni con il fine di intimorire il giornalista non solo il pagamento delle spese processuali (davvero troppo poco per chi usa il diritto come arma per intimidire), ma anche una sanzione economica pari all’entità del risarcimento richiesto al giornalista. In occasione della visita era in discussione un progetto di legge per arginare questa piaga, ma da allora non è stato concluso nulla. Anzi, l’Italia è arrivata a depenalizzare un reato simile a quello di diffamazione, ossia l’ingiuria, ma ha lasciato in piedi il primo con l’evidente intento, a nostro avviso, di voler tenere sotto scacco i giornalisti. Tra l’altro, l’alto tasso di pericolosità delle querele temerarie per la libertà di stampa è aumentato dalla circostanza che, come come sottolineato dal Relatore speciale dell’Onu nel citato rapporto, in Italia sono presenti, sotto il profilo economico, gravi situazioni di sfruttamento e una proliferazione di tipologie contrattuali che hanno portato a una totale deregulation, con giornalisti freelance pagati, a volte, 5 euro ad articolo e addirittura 4 centesimi per rigo.
Questo è anche uno dei motivi che vede l’Italia in una situazione pessima in tutti i ranking relativi alla libertà di stampa. Non solo nelle classifiche redatte da organizzazioni internazionali non governative come Reporters without borders, l’Italia perde posizioni passando dal 73esimo posto del 2015 al 77esimo del 2016 (il World Press Freedom Index è reperibile nel sito https://rsf.org/en/italy), ma anche secondo le analisi svolte dall’Unione europea. Nel rapporto su “Violenza, minacce e pressioni nei confronti dei giornalisti e di altri soggetti dei media nell’Unione europea” (reperibile nel sito http://fra.europa.eu/en), presentato dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali il 17 novembre 2016, è riportata la classifica relativa ai casi di minacce e pressioni subite da giornalisti dal 1° gennaio 2014 al 1° settembre 2016 dalla quale l’Italia risulta in vetta per il numero di giornalisti minacciati, passando da 58 casi nel 2014 a 92 nel 2016. Il numero più alto in assoluto nello spazio Ue. Segue la Francia a quota 55 e la Polonia a 29.
Già, quindi, a un primo sguardo, appare chiaro che la libertà di stampa in Italia è in caduta libera.
Per provare a migliorare la situazione e rispettare un diritto, quello della libertà di stampa che è essenziale per una reale società democratica, l’Italia dovrebbe mettere mano seriamente al quadro normativo esistente. Basterebbe poco: tutto ciò che il legislatore dovrebbe fare – e, come vedremo oltre, continua a non fare nel disegno di legge ancora in discussione – è rispettare gli standard internazionali e, in particolare, quanto imposto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata il 4 novembre 1950 nell’ambito del Consiglio d’Europa (organizzazione da non confondere con l’Unione europea) e ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848. Oltre alla circostanza che il mancato rispetto della Convenzione europea comporta un illecito internazionale, va sottolineato che, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007, le norme convenzionali (considerate norme interposte), come interpretate dalla Corte europea, hanno rango subcostituzionale grazie all’articolo 117 della Costituzione. Di conseguenza, il giudice nazionale è tenuto a interpretare le norme interne in modo convenzionalmente orientato e, se ciò non è possibile, deve sollevare la questione di costituzionalità delle norme interne per contrarietà all’articolo 117 della Costituzione il cui contenuto, di volta in volta, è dato dalla norma convenzionale conferente in quel determinato caso. Eppure ciò non risulta avvenuto, ad esempio, con riguardo all’articolo 595, comma 3, c.p. che, nei casi di diffamazione a mezzo stampa, prevede la reclusione da sei mesi a tre anni o una multa non inferiore a 516 euro (non è fissato il massimo), misura senza dubbio in contrasto con la Convenzione. La Corte europea, infatti, in più occasioni, anche con riguardo all’Italia (si veda, tra gli altri, la sentenza di condanna del 24 settembre 2013, nel caso Belpietro), ha stabilito che la previsione del carcere per i giornalisti, salvo nei casi di incitamento all’odio, comporta una violazione dell’articolo 10 della Convenzione (che garantisce la libertà di espressione) in quanto produce un chilling effect sulla stampa. Analogo effetto si verifica nel caso di sanzioni pecuniarie o risarcimenti esorbitanti che hanno un effetto deterrente, su larga scala, sulla libertà di stampa. Si tratta, giova ricordalo, di principi consolidati e affermati varie volte dalla Corte europea le cui pronunce, anche quando rivolte ad altri Stati, contengono principi applicabili in via generale nell’interpretazione delle norme convenzionali.
Certo, la questione delle querele temerarie che, in alcuni casi vengono annunciate prima ancora dell’apparizione di un articolo o di un servizio televisivo, con un rafforzato potere intimidatorio, non è solo un problema italiano. Basti pensare che il gruppo francese Bolloré ha citato in giudizio l’emittente televisiva France 2 a seguito della trasmissione di un reportage sull’attività del gruppo in Africa. La richiesta avanzata è stata di 50 milioni di euro, una cifra che, come risulta dalla piattaforma del Consiglio d’Europa dedicata alla protezione dei giornalisti e alla promozione della loro sicurezza, che raccoglie le situazioni di pericolo per i reporter (reperibile all’indirizzo http://www.coe.int/en/web/media-freedom/home), non è stata mai chiesta in passato (il sistema di allerta conta, al 6 gennaio 2017, 242 casi registrati, di cui 5 italiani, un numero esiguo dovuto alla circostanza che il sistema non è molto conosciuto).
Va detto, inoltre, che, anche nel rapporto sulla protezione della libertà dei media in Europa presentato il 12 gennaio 2015 all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Doc. n. 13664), redatto da Gvozden Srećko Flego, è stato evidenziato il deterioramento della libertà dei media in Paesi parti alla Convenzione europea. Nel documento, al centro delle preoccupazioni, anche l’Italia, con un Parlamento – si legge nel rapporto – che ancora non approva la nuova legge sulla diffamazione malgrado le osservazioni presentate dalla Commissione Venezia del Consiglio d’Europa nel parere n. 717/2013 approvato il 9 dicembre 2013 (CDL-AD(2013)038). In molti casi – ha osservato il relatore Flego – la Corte europea ha condannato l’Italia per violazione della libertà di stampa ma il disegno di legge, che dovrebbe rimediare alle situazioni di non conformità, è ancora lontano dagli standard della Convenzione europea tanto più che non sono previsti interventi volti a dissuadere le azioni pretestuose contro i giornalisti. Senza dimenticare che le sanzioni economiche previste sono eccessive e in grado di avere un effetto deterrente sulla libertà di stampa. Anche il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, nelle linee guida sui principi che gli Stati dovrebbero seguire per rispettare l’articolo 10 della Convenzione europea e le sentenze della Corte di Strasburgo (raccomandazione (CM/Rec(2016)4, 13 aprile 2016), ha chiesto agli Stati misure per garantire la protezione effettiva dei giornalisti che non devono subire attacchi, finanche giudiziari. Il Comitato dei ministri ha evidenziato la necessità di misure volte a impedire attacchi giudiziari – ossia le querele temerarie – che producono un chilling effect sulla libertà di stampa, nonché la messa al bando di sanzioni sproporzionate e di misure giudiziarie e amministrative volte a ostacolare l’attività dei giornalisti.
Passando all’esame della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, va detto che, grazie agli interventi della Corte di Strasburgo, la tutela dei giornalisti è stata rafforzata in modo decisivo. L’articolo 10 della Convenzione dispone che “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera”. Ora, proprio perché è affermato il diritto a ricevere informazioni, la Corte europea ha ritenuto che una tutela speciale va accordata ai giornalisti che svolgono un ruolo centrale perché non solo esercitano il diritto individuale alla libertà di espressione ma, trasmettendo alla collettività informazioni di interesse generale, consentono la realizzazione del diritto passivo a ricevere informazioni, garantendo la realizzazione di una società democratica. Grazie alla giurisprudenza della Corte europea, quindi, è stata delineata per i giornalisti una protezione rafforzata e distinta rispetto agli altri individui titolari del diritto alla libertà di espressione, con speciali garanzie in ragione della funzione esercitata dai giornalisti (principio affermato sin dalla sentenza del 1° luglio 1997, Oberschlick c. Austria, n. 2). Questo perché, la Corte, al pari di altri organi internazionali, giurisdizionali e non, riconosce che i giornalisti tengono accesi i riflettori su casi di interesse generale e pubblicano informazioni scottanti anche con al centro il potere politico, con la conseguenza che necessitano di garanzie rafforzate e di una ridotta ingerenza dello Stato nell’applicazione dei limiti alla libertà di espressione, con un margine di apprezzamento più ristretto rispetto agli altri casi in cui è in rilievo la libertà di espressione. Tra l’altro, la Corte ha stabilito che sussiste un obbligo per lo Stato di prevedere garanzie più efficaci per l’esercizio della libertà di stampa e, quindi, di un arsenale di misure positive che assicurino la protezione e l’effettiva realizzazione della libertà per i giornalisti (sentenza Jersild c. Danimarca del 23 settembre 1994, poi confermata in varie occasioni).
Certo, la stessa Convenzione europea prevede limitazioni dovute a garantire la tutela di altri diritti come quello alla reputazione, alla privacy, ma le deroghe a una libertà fondamentale hanno una portata eccezionale e, quindi, obbligano a un’applicazione restrittiva rispetto al diritto principale.
Nel predisporre le leggi interne gli Stati hanno una discrezionalità limitata perché sono tenuti a rispettare i parametri giurisprudenziali fissati dalla Corte europea, che rendono la Convenzione diritto vivente, per non incorrere in una violazione del diritto internazionale. Questo vale anche dal punto di vista dell’applicazione effettiva da parte degli operatori giuridici, primi tra tutti i magistrati inquirenti e giudicanti.
Ed invero, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ormai consolidato una giurisprudenza con la quale non solo ha chiarito che la sanzione del carcere nei casi di diffamazione è contraria alla Convenzione europea (ad eccezione dei casi di incitamento all’odio e alla violenza), ma che lo sono anche le sanzioni pecuniarie sproporzionate (nella forma di multe o risarcimenti) in quanto la sola previsione di misure particolarmente onerose per giornalisti ed editori può costituire un freno alla divulgazione di notizie di interesse pubblico. Tale effetto negativo si verifica non solo nei casi in cui, in uno Stato, le leggi in materia sono adottate con l’obiettivo di limitare la libertà d’informazione in senso ampio, ma anche nei Paesi la cui legislazione si prefigge una limitazione per obiettivi giusti, come la tutela di altri diritti quali la reputazione e il rispetto della vita privata.
Se in un ordinamento sono stabilite sanzioni penali sproporzionate come misure detentive e multe onerose o ancora se si permettono azioni civili risarcitorie senza alcun limite alle richieste pecuniarie, è evidente che sia i giornalisti – soprattutto quelli investigativi – sia gli editori, possono autolimitarsi nell’esercizio del diritto. Con un effetto negativo duplice perché si compromette l’effettività del diritto alla libertà di espressione e si nega il diritto di altri individui a ricevere informazioni.
Pertanto, se è indubbio che il giornalista ha diritti ma anche doveri e responsabilità, con la conseguenza che il giornalista che agisce in contrasto con le restrizioni ammissibili, funzionali a garantire altri diritti, deve subirne le conseguenze, è altrettanto indiscutibile che le conseguenze, siano esse civili o penali, devono rispettare gli standard fissati da Strasburgo. A ciò si aggiunga, a nostro avviso, che lo Stato deve adottare misure positive per permettere la realizzazione della libertà di stampa e, quindi, intervenire per predisporre strumenti che arginino azioni giudiziarie pretestuose.
In via generale, le misure restrittive devono essere previste per legge, compatibili con le regole internazionali in materia di diritti dell’uomo e devono avere caratteristiche tali da non produrre un chilling effect sull’attività di coloro che hanno il compito di informare, così rispettando il reale fine delle sanzioni che è quello di tutelare altri diritti. E’ evidente che se si consentono richieste risarcitorie eccessive e non si utilizzano strumenti in grado di produrre un effetto deterrente su queste azioni si consente la perpetrazione di comportamenti che devono essere combattuti per realizzare in modo effettivo il diritto alla libertà di stampa assicurato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha stabilito che non è sufficiente bandire forme di censura preventive, ma è indispensabile garantire la libertà d’informazione anche con un’adeguata limitazione delle misure sanzionatorie. D’altra parte, tali misure sono in grado di produrre un effetto analogo alla censura raggiungendo l’obiettivo di bloccare il giornalista nella diffusione di informazioni. In via generale, senza poter approfondire il tema in questa sede, la Corte europea ha chiesto agli Stati che, nell’applicazione di misure sanzionatorie o risarcitorie, i giudici nazionali tengano conto della verità delle informazioni diffuse (che è un’esimente), della buona fede del giornalista, dell’interesse del pubblico a ricevere una notizia, della differenza tra fatti e opinioni (nelle quali sono inclusi giudizi di valore, satira e critica), dell’esistenza di un diritto del giornalista a scegliere la forma delle proprie comunicazioni anche con toni provocatori e della circostanza che le notizie da pubblicare sui giornali sono un bene deperibile, caratteristica che impone un’immediatezza nella diffusione. Certo, però, la Corte ha chiesto che il giornalista agisca nel rispetto delle best practices, effettuando le verifiche necessarie prima di pubblicare le notizie.
Sul fronte delle misure pecuniarie (nella forma di sanzioni penali o risarcimenti), va detto che già da tempo la Corte europea è intervenuta a sanzionare gli Stati che consentono liquidazioni elevate per le azioni di risarcimento danni. Le misure pecuniarie, infatti, hanno un evidente effetto dissuasivo sul giornalista e sull’editore, come rilevato dallo Steering Committee on Media and New Communication Services, nel rapporto del 7 febbraio 2007, nel quale è evidenziato che la previsione di sanzioni pecuniarie molto alte e risarcimenti elevati è in contrasto con l’articolo 10 della Convenzione europea perché la libertà d’informare del giornalista è condizionata dal rischio di incorrere in pesanti sanzioni economiche che possono condurre anche alla perdita del proprio lavoro. L’indicato condizionamento può inoltre essere assimilato a una forma di censura che rischia di provenire non solo dall’esterno, ma anche dall’interno perché un editore, per ragioni economiche, potrebbe impedire la pubblicazione delle notizie “a rischio”, o consentirla lasciando, però, la responsabilità, inclusi eventuali risarcimenti dovuti, al giornalista.
Le legislazioni statali, quindi, che prevedono la corresponsione di risarcimenti elevati nei casi di diffamazione e di altri illeciti o reati di opinione e, a nostro avviso, quelle che non predispongono strumenti in grado di arginare queste azioni temerarie, risultano contrarie alla libertà di stampa. Prendiamo uno tra i tanti casi di cui si è occupata la Corte europea dei diritti dell’uomo. Proprio con riferimento all’Italia, Strasburgo, nella sentenza Riolo depositata il 17 luglio 2008, ha condannato l’Italia perché la multa imposta al giornalista pari a 41.315 euro “era suscettibile di dissuaderlo dal continuare ad informare il pubblico su temi di interesse generale”, alterando il raggiungimento del giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco, richiesto dalla Convenzione. Così, la Corte ha condannato lo Stato in causa a versare al giornalista (in quella vicenda pubblicista) un indennizzo di 60mila euro, oltre 12mila euro per le spese processuali. Il principio stabilito dalla Corte è che, nello stabilire sanzioni pecuniarie o indennizzi, i giudici nazionali devono considerare come parametro ineludibile “le tasche” del giornalista ossia la sua situazione economica. Solo in questo caso la misura può essere considerata proporzionale.
Si ricordi che già nella sentenza del 5 luglio 2007 relativa al caso Lionarakis c. Grecia, la Corte ha accertato la violazione da parte della Grecia della libertà di espressione perché era stata inflitta un’ammenda a un giornalista a seguito di un procedimento per diffamazione senza valutare la sua situazione finanziaria. Nella sentenza del 2 marzo 2010, Antica e società «R» c. Romania, la Corte ha condannato il Paese in causa perché i giudici nazionali avevano stabilito che il giornalista e la casa editrice dovevano indennizzare alcuni politici e funzionari pubblici accusati di aver sottratto soldi nel corso di una procedura di acquisizione di una società. La Corte ha statuito l’incompatibilità con l’articolo 10 di un sistema nel quale sussiste una responsabilità automatica dell’editore, che si aggiunge a quella del giornalista, senza che sia provato un comportamento diretto della società. I ricorrenti erano stati condannati a versare una sanzione di 30 volte superiore al salario medio percepito in Romania, con la conseguenza che la sanzione era senza dubbio sproporzionata e in grado di impedire la continuazione dell’attività agli stessi editori.
I principi indicati sono stati ribaditi nella sentenza Papaianopol c. Romania del 16 marzo 2010, con la quale la Corte ha concesso alla giornalista la sostanziale restituzione della somma che aveva dovuto versare a seguito del procedimento civile e un indennizzo per i danni non patrimoniali subiti, a causa del sicuro stress patito per il procedimento giudiziario.
Anche nella sentenza Koprivica c. Montenegro del 22 novembre 2011, la Corte europea ha constatato una violazione della libertà di stampa perché il risarcimento imposto al giornalista, che pure aveva commesso un errore nell’articolo, era di importo superiore a 25 volte la pensione da lui percepita. Analoga conclusione nelle sentenze Kasabova c. Bulgaria e Bozhkov c. Bulgaria del 19 aprile 2011. In quest’ultimo caso, la Corte ha ritenuto che le ammende pecuniarie imposte ai due giornalisti coinvolti fossero eccessive sia in relazione al salario minimo nel Paese (erano di circa 70 volte superiori) sia con riguardo al salario dei giornalisti (34 volte superiori) e, quindi, contrarie alla Convenzione. Di conseguenza, la Corte europea ha chiesto ai giudici interni «[to] take into account the likely impact of their rulings not only on the individual cases before them but also on the media in general» (par. 51, Bozhkov).
Da ultimo, con la sentenza del 30 agosto 2016, Medipress-sociedade Jornalistica Lda c. Portogallo, la Corte ha condannato lo Stato in causa perché l’ammontare del risarcimento imposto al giornalista e all’editore era eccessivo ed era così in grado di alterare il giusto equilibrio richiesto dalla Convenzione. Nel caso in esame, nel magazine dell’editore era stato pubblicato un articolo su un ex Primo Ministro, al quale si imputava consumo di droga. Il politico aveva agito in sede civile contro il giornalista e l’editore che erano stati condannati a pagare in solido 30mila euro, ma come detto, Strasburgo ha ritenuto che fosse stata violata la Convenzione perché l’importo non rispettava gli standard convenzionali.
È poi da sottolineare che laddove la sanzione pecuniaria o altre misure risarcitorie incidano sulla situazione economica del giornalista e dell’editore, pregiudicando la libertà d’informazione, non ha rilievo la commissione di errori da parte del giornalista perché la violazione della Convenzione è pressoché automatica. Così, in una vicenda con al centro la violazione della privacy della “top model” Naomi Campbell per la pubblicazione di alcuni articoli sul giornale “The Daily Mirror”, nella sentenza Mgn c. Regno Unito del 18 gennaio 2011, pur ritenendo che il diritto alla vita privata della donna fosse stato leso, la Corte ha sancito che la condanna al pagamento delle spese processuali sostenute dalla modella, imposta all’editore, oltre ad avere un sicuro effetto negativo sulla libertà di espressione, fosse una misura sproporzionata e, quindi, contraria alla Convenzione. Con sentenza del 12 giugno 2012, la Corte si è pronunciata sull’equa soddisfazione alla società ricorrente corrispondendo all’editore 97.600 euro per i danni materiali subiti a causa del primo ricorso all’House of Lords, 150mila euro per il secondo ricorso e 30.500 euro per le spese processuali.
La Corte europea ha ritenuto altresì che, nell’applicare ammende, le autorità nazionali devono tenere conto del diverso impatto che può avere un contenuto diffamatorio su una persona fisica rispetto a una persona giuridica. In queste ipotesi, infatti, l’effetto negativo è normalmente inferiore, circostanza che deve essere valutata nel determinare l’importo da corrispondere al diffamato. In tal senso, si veda la sentenza del 7 dicembre 2010 Público – Comunicação Social S.A. c. Portogallo: in quell’occasione, i giornalisti e l’editore erano stati costretti a versare, dai giudici nazionali, 75.000 euro, senza però che fosse stato considerato il minore impatto diffamatorio sulle persone giuridiche.
Dalla breve analisi della prassi risulta che le sanzioni pecuniarie così come le misure risarcitorie disposte a seguito di un’azione civile devono essere proporzionali e non imporre un onere eccessivo sul giornalista o sull’editore tale da impedire, anche nel futuro e con riguardo all’attività di altri giornalisti, l’esercizio della libertà di stampa. Ed invero, dalla prassi si ricava che le autorità nazionali, per agire in linea con la Convenzione, sono obbligate a considerare la situazione finanziaria del giornalista.
L’importanza del rispetto di questi principi deriva non solo dal fatto che, in caso di violazione, gli Stati in causa ricevono una condanna da parte della Corte europea, ma anche da una ragione di carattere economico per lo stesso Stato. Ed invero, in via generale, la Corte impone allo Stato condannato di restituire le somme che il giornalista è stato costretto a versare alle persone che hanno agito in giudizio nei suoi confronti dinanzi ai tribunali nazionali, con la conseguenza che l’onere economico è di fatto assunto dallo Stato e che la parte che si presumeva lesa per decisione dei giudici interni riceve un indennizzo attribuito in modo non conforme agli standard internazionali, ottenendo un indebito vantaggio.
Senza dimenticare che l’accertamento di violazioni comporta, non di rado, l’attribuzione al giornalista di un indennizzo a titolo di danno non patrimoniale perché – come osservato dalla Corte europea nella pronuncia del 2 ottobre 2012, Yordanova e Toshev c. Bulgaria – la sofferenza nella forma di stress e frustrazione provocati dalla violazione della libertà di espressione non possono essere compensati in modo adeguato con il solo accertamento della violazione del diritto, tanto più che, per un giornalista, subire azioni giudiziarie può avere conseguenze negative per il proseguimento del suo lavoro, con particolare riguardo alle fonti che potrebbero essere intimorite dalle azioni giudiziarie.
Va ricordato che l’Italia nel 2015 ha dovuto versare, nel complesso, oltre 77 milioni di euro per gli indennizzi dovuti a violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (si veda la relazione annuale sull’esecuzione delle pronunce della Corte europea nei confronti dell’Italia presentata dal Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri, ufficio del contenzioso, con riferimento all’anno 2015).
Proviamo, a questo punto, a fare qualche cenno sulla compatibilità del disegno di legge n. 1119 approvato dal Senato il 29 ottobre 2014 e dalla Camera, con modificazioni, il 24 giugno 2015, all’esame delle commissioni dal 9 settembre 2015, che ha assunto il nuovo titolo “Modifiche alla legge 8 febbraio 1948 n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale, al codice di procedura civile e al codice civile in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale”. Il testo, per molteplici aspetti, non va nella direzione giusta: tra gli altri aspetti, la disciplina della rettifica, taluni sanzioni amministrative e la sospensione dalla professione sono incompatibili con la giurisprudenza di Strasburgo. Come detto, la misura dell’eliminazione del carcere prevista attualmente dall’articolo 595 c.p. è solo una delle misure – diremmo quella minima – richiesta dalle organizzazioni internazionali. In particolare, il testo elimina sì il carcere ma non depenalizza il reato e prevede una multa che va da 5.000 a 10.000 euro e che può arrivare fino a 60mila euro nei casi in cui l’autore sia consapevole della sua falsità, con non pochi problemi applicativi sia sui parametri per l’individuazione della consapevolezza (con rischi anche per la protezione delle fonti), sia in materia di onere della prova.
Per quanto riguarda il risarcimento del danno è introdotto l’articolo 11-bis alla legge n. 47/1948: si richiede al giudice di tenere conto della diffusione quantitiva e della rilevanza nazionale o locale del mezzo di comunicazione usato per compiere il reato, della gravità dell’offesa e dell’effetto riparatorio della rettifica, escludendo, così, la situazione economica del giornalista. Un’assenza in chiaro contrasto con la giurisprudenza della Corte europea.
E’ così evidente che l’eliminazione del carcere è sì un atto dovuto, ma rischia di essere solo un’operazione di facciata se non accompagnata da una totale rivisitazione del quadro sanzionatorio pecuniario penale e da stringenti limiti nelle richieste di risarcimento in sede civile. Ed invero, sono del tutto assenti strumenti con una funzione deterrente verso chi avvia azioni giudiziarie pretestuose, con richieste di risarcimento esorbitanti, mentre non c’è dubbio che la questione dovrebbe essere affrontata proprio nel disegno di legge, senza che possano essere richiamati strumenti certamente inefficaci (come l’articolo 96 c.p.c. sulle liti temerarie) per fronteggiare una vera e propria emergenza che fa arretrare la libertà di stampa in Italia. E converrebbe che, con urgenza, si riprenda la discussione del testo in modo da apportare le modifiche nel senso voluto dagli organismi internazionali anche alla luce del fatto che, proprio di recente, la Corte europea ha comunicato all’Italia il caso Sallusti, in relazione al quale Strasburgo ha chiesto al Governo di chiarire lo stato del disegno di legge n. 1119B sia con riguardo al carcere, sia per le sanzioni pecuniarie eccessive.
*professore associato di diritto internazionale