Se ne va Zygmunt Bauman e il mondo intero si interroga. Ci interroghiamo, noi rimasti qui, sul senso e sulla ragione stessa del vivere; ci interroghiamo sui valori universali e sulle piccole cose di ogni giorno; ci interroghiamo su questa società liquida e colma di solitudine nella quale siamo immersi, sulla disperazione di un tempo senza storia e senza prospettive, su un cittadino globale che appare sempre più un pesce fuor d’acqua, immerso com’è in un clima di ostilità, tristezza e chiusura generale che non fa presagire nulla di buono per il nostro futuro.
Se n’è andato, all’età di 91 anni, uno studioso che ha saputo comprendere, scandagliare e interpretare come nessun altro la complessità della stagione che stiamo attraversando, dandole un senso, una logica e quel minimo di razionalità che sembra mancarle del tutto, rimettendo l’uomo al centro dei ragionamenti scientifici e condannando senza appello la barbarie di un liberismo selvaggio, aggressivo, gretto e, in una certa misura, totalitario, al pari delle nuove tecnologie che, prive di ogni regola, hanno prodotto nuove solitudini, nuove chiusure ed effetti collaterali devastanti per la società.
Tuttavia, Bauman era un gigante soprattutto per la sua capacità di comprendere la realtà contemporanea partendo dalle piccole cose, dalle consuetudini e dai consumi di massa, dalle vicende di ogni giorno di ciascuno di noi, dalle fragili certezze che stanno progressivamente venendo meno, dalla mancanza di punti di riferimento, di frontiere e di visioni che sta lasciando milioni di persone in preda a un malessere e ad un malcontento sociale che rischiano esplodere in forme imponderabili.
Guardava lontano, Bauman, scrutava l’orizzonte e proiettava il proprio sguardo al di là del presente, con la lungimiranza tipica delle menti capaci di immaginare il domani, di cercare, di scoprire, di vivere con un’intensità straordinaria e di provare costantemente quella magnifica inquietudine esistenziale che è la cifra di tutti coloro che non si arrendono, non si rassegnano e sanno cogliere nel tormento e nella sfiducia collettiva i segnali di una possibile riscossa, reagendo in senso progressista e riscoprendo quei princìpi che, dopo l’avvento della globalizzazione, sembravano destinati all’oblio.
Partecipazione popolare, agorà, comunità, lotta contro ogni forma di egoismo, di ingiustizia e di individualismo: questi erano i capisaldi del pensiero di questo galantuomo che ha attraversato un secolo, ha vissuto a contatto con tutti i drammi del Novecento e lo ha saputo superare meglio di molti altri, elaborando un pensiero politico e un modello sociale all’altezza del Ventunesimo secolo e tentando di costruire un pensiero democratico di massa, in grado di generare il riscatto, la ribellione pacifica e la rinascita delle classi subalterne nonché di ricostruire la stessa Europa e lo stesso Occidente su basi nuove, battendosi ostinatamente contro ogni forma di oppressione.
Un uomo curioso, un viaggiatore straordinario, un Robinson Crusoe moderno, innamorato di un’avventura chiamata vita che ha attraversato con entusiasmo fino all’ultimo giorno, senza mai tirarsi indietro, senza mai smettere di venire incontro alle giovani generazioni, senza mai smettere di studiare, di imparare e di volare con la fantasia verso frontiere inesplorate.
E così, se ieri abbiamo detto addio all’ex presidente iraniano, Hāshemi Rafsanjāni, tra i principali sostenitori del moderato Rouhani, oggi siamo costretti a piangere la scomparsa di un uomo di cui ci mancherà soprattutto la lungimiranza, lo spessore umano e culturale, il desiderio di lasciare in eredità alle future generazioni un avvenire migliore e la passione civile dirompente che lo portava a lottare anche in vecchiaia; anzi, in vecchiaia ancor più che in gioventù.
Personalmente, mi mancherà la sua potenza espressiva, la sua efficacia analitica e quello sguardo enigmatico che induceva a riflettere e ti interrogava anche a distanza, lasciando un vuoto incolmabile ora che quel volto segnato dalle rughe non ci fissa più e la nostra solitudine è diventata assenza.