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Paolo Conte: ottant’anni in musica

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Pensate come sarebbe stato triste il nostro Paese se Paolo Conte si fosse dedicato unicamente agli studi giuridici, scegliendo la carriera forense e cedendo alla bislacca idea, che pure l’ha sfiorato in una fase particolare della sua vita, di abbandonare la carriera artistica. Pensate se non avesse avuto successo, se non fosse diventato uno dei più grandi cantautori di sempre, celebre in Italia e all’estero, amatissimo in Francia e negli Stati Uniti, con canzoni successivamente raffigurate da alcuni dei più grandi disegnatori e con la realizzazione di colonne sonore indimenticabili per una serie di film passati alla storia anche, per non dire soprattutto, grazie ad esse. Pensate se non avesse reso omaggio a Gino Bartali o non ci avesse invitato a seguirlo in quei versi indimenticabili, in quel “vieni via con me” che costituisce, al tempo stesso, un auspicio, una speranza e un’analisi sociale sferzante della nostra epoca, lui che si è sempre detto disinteressato alla contemporaneità quando, in realtà, non ha fatto altro che scandagliarla, studiarla a fondo e cercare di restituircela in tutte le sue molteplici sfaccettature.

Pensate se Paolo Conte, in questi ottant’anni, non avesse coniugato la poesia dei testi con la meraviglia delle musiche, se non avesse incontrato il paroliere Vito Pallavicini, di cui peraltro ricorre il decimo anniversario della scomparsa, se non avesse abbracciato, quasi fraternamente, Adriano Celentano, se non avesse composto la musica di “Azzurro” e non si fosse lasciato trasportare dalla complessità del reale e dell’analisi storica, del sogno e dell’incanto, dell’illusione e dell’utopia, in una sorta di mistica del bene, in una sorta di perenne sguardo al futuro, in una sorta di poetica burbera e scontrosa ma, al contempo, viva, proprio come i paesaggi della natia Asti e di quell’universo piemontese, terra di vini e campioni del ciclismo, che da sempre compone l’immaginario di un uomo che da esso ha attinto la sua arte e che ha deciso di portare con sé la propria infanzia in ogni angolo del mondo.
Pensate se Paolo Conte non si fosse lasciato travolgere dal lirismo della sua voce roca, dalla dolcezza del suo cantare quasi di malavoglia, dalla magia del suo essere unico, dal suo essere a tratti indecifrabile, dal suo essere un artista d’altri tempi eppure modernissimo, dal suo piacere a tutte le generazioni, dal suo amare la vita e dal suo sfidarla di continuo, in una ricerca di suoni, sensazioni e sentimenti che si protrae ormai da oltre mezzo secolo e che non ha ancora trovato, e per fortuna difficilmente troverà, appagamento.

Se Paolo Conte non avesse coniugato la sua profonda italianità con il suo essere un cittadino del mondo, il suo saper giocare magistralmente con registri linguistici diversi, talvolta fondendo l’italiano con altre lingue per ottenere la massima musicalità e la massima potenza espressiva, insomma, se non fosse l’artista poliedrico, inafferrabile, talvolta stravagante e, ancora oggi, estremamente originale che è, capace di resistere al tempo, alle mode e a tutte le nostre ossessioni dalle quali, grazie a Dio, si è sempre tenuto vigorosamente alla larga, non avremmo un emblema della resistenza al conformismo, all’ipocrisia e alla decadenza culturale che segna, drammaticamente, quest’epoca quasi priva di senso.
E allora andiamo via, crediamo ancora in qualcosa, ostinatamente, convintamente, senza fermarci un solo istante, continuando a lottare con la forza della bellezza, della dolcezza e dell’irriverenza, noi che dalla vita abbiamo ricevuto il dono di incrociare sulla nostra strada questo gigante timido, schivo e in grado di resistere persino alla tentazione di diventare un divo, bastandogli la grandezza delle sue note e delle sue parole per consegnarsi all’eternità


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