Un inizio peggiore non avrebbe potuto esserci. Lasciatici alle spalle un 2016 disseminato di lutti, tragedie, attacchi terroristici, violenze e barbarie d’ogni sorta, appena tornati dal cenone di san Silvestro, siamo stati subito proiettati in un altro scenario da incubo, con l’attentato che ha colpito una discoteca di Istanbul, provocando trentanove vittime e quasi settanta feriti, di cui alcuni in condizioni gravi, gettando un Paese già scosso dal fallito golpe dello scorso luglio e dalla conseguente repressione, ferocissima, di Erdogan nella paura e nella disperazione, con gravi ripercussioni anche per quanto concerne il non secondario aspetto turistico. Tuttavia, il “Bataclan sul Bosforo”, come è stata giustamente ribattezzata quest’ennesima mattanza a firma ISIS, va ben al di là dei confini turchi, interessando l’intera regione mediorientale e dandoci la misura di ciò che ci attende nell’anno che è appena cominciato.
Se l’insediamento di Trump, il prossimo 20 gennaio, con annessa nomina dell’ambasciatore fondamentalista Friedman a capo della “diplomazia” americana in Israele, rischia di scatenare una nuova Intifada nonché un’ulteriore destabilizzazione di un’area già ridotta a una polveriera, non c’è dubbio che la spregiudicatezza di Erdogan, passato dal sostegno ai ribelli anti-Assad in funzione anti-curda al più comodo e conveniente accordo con Putin e Rouhani in funzione anti-ISIS, previa concessione da parte di Mosca di poter soffocare a piacimento le istanze di libertà del popolo curdo, non c’è dubbio che quest’inversione di rotta del Sultano islamista arrecherà seri problemi a una Nazione situata al confine con l’inferno siriano e ormai ridotta a cuscinetto fra il desiderio di menare le mani di un’Europa troppo fragile per farlo e quello di una banda di tagliagole, ricchissima e armata fino ai denti, troppo esaltata per non farlo.
Se non si risolverà a breve la questione turca, se Putin e Trump non troveranno a breve un punto di intesa, se lo stesso Obama non capirà che l’opposizione al magnate newyorkese, sacrosanta e da condurre con la massima fermezza da parte di tutto il progressismo mondiale, dovrà essere giocata su altri terreni, cercando invece con la Russia un modus vivendi accettabile; insomma, se entro la metà di quest’anno la Turchia non sarà stata ricondotta a più miti consigli e il contrasto nei confronti dello Stato Islamico non sarà stato condotto con la massima durezza, sarà inevitabile che il Vecchio Continente, e forse gli stessi Stati Uniti, si trasformino, a loro volta, nel teatro preferito dai terroristi, a cominciare dai cosiddetti “cani sciolti”, per coinvolgerci, a mo’ di specchio, nella loro faida interna. Non dimentichiamoci, infatti, che questa “guerra mondiale differita”, come l’ha definita con coraggio e lungimiranza papa Francesco, si presenta sotto le sembianze di una sorta di anti-mondializzazione, trae origine dall’esplosione di disuguaglianze ormai insostenibili e si sostanzia nel tentativo di far saltare un assetto di potere che affonda le radici, specie per quanto riguarda il Medio Oriente, addirittura negli equilibri venutisi a creare in seguito alla caduta dell’Impero ottomano, dunque in un contesto globale vecchio di cent’anni e ormai del tutto anacronistico.
Dialogo e integrazione con le comunità musulmane presenti nelle nostre città e nelle nostre periferie, isolamento dei violenti, accantonamento dell’equazione, squallida e razzista, immigrato uguale terrorista, creazione di corridoi umanitari per porre fine alle tragedie del mare che costituiscono un’onta indicibile per la nostra civiltà, coordinamento delle forze preposte alla sicurezza, nascita di un’FBI europea e lotta senza quartiere contro i predicatori d’odio, ovunque essi agiscano, a cominciare dalla rete e dalle carceri: questo deve essere l’impegno comune dell’Europa, nell’anno in cui si celebra il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma e l’Italia ospiterà a Taormina, il 26 e 27 maggio, il vertice del G7, oltre ad essere membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Bisognerà vedere, tuttavia, in che condizioni arriveremo all’appuntamento di maggio, visto che la Francia sarà chiamata al voto in primavera e il rischio di ritrovarsi la Le Pen all’Eliseo cresce di giorno in giorno, specie se si considera la fragilità del liberista thatcheriano Fillon, la cui agenda è semplicemente imbarazzante e le cui proposte sono quanto di più sbagliato e deleterio si sia mai visto in Francia dal dopoguerra in poi, e l’inconsistenza della sinistra, costretta ad affidarsi, probabilmente, a un blairiano fuori tempo massimo come Valls o, peggio ancora, a un sostenitore di una sorta di Partito della Nazione in salsa transalpina come Macron, chiamato dal catastrofico Hollande a sostituire Montebourg ala guida del dicastero dell’Economia e artefice di alcune delle brillanti politiche che hanno impedito al prode François finanche di ripresentarsi. Per non parlare poi dell’Olanda, dove il rischio che a prevalere sia l’euroscettico e pericolosissimo Geert Wilders è davvero elevato, per giunta a dieci giorni dalle celebrazioni dei Trattati di Roma e con l’Olanda paese fondatore che potrebbe presentarsi all’appuntamento rappresentata da un fautore della distruzione di quel progetto.
La Germania dovrebbe reggere, visto che Frauke Petry desta sì molta paura ma non sembra ancora in grado di impensierire una Merkel in affanno, costretta a dirimere le beghe scoppiate all’interno del suo stesso partito, specie con i bavaresi della CSU, in difficoltà dopo l’attentato di due settimane fa a Berlino e la rappresaglia a sfondo sessuale dello scorso anno a Colonia, ma comunque nelle condizioni di reggere l’urto, probabilmente affidandosi per la terza volta a una grande coalizione con un’SPD ormai in caduta libera, priva di una visione, di un’idea, di un progetto politico credibile e di vertici minimamente all’altezza della situazione.
Da non sottovalutare neanche le vicende interne di due paesi apparentemente lontani ma, in realtà, vicinissimi per quanto concerne l’aspetto economico e geo-politico: la Cina, che in autunno dovrà rinnovare il proprio timoniere e, con ogni probabilità, si affiderà nuovamente al maodenghista Xi Jinping, intenzionato, forse, a proporsi fra cinque anni per un terzo mandato, e l’Iran del moderato Rouhani, la cui leadership, offuscata da una ripresa che stenta ancora a decollare nonostante l’accordo sul nucleare e le caute aperture dell’ex presidente Obama, dovrà lottare, a maggio, per essere riconfermata alla guida della nazione, per poi vedersela, in caso di successo, con la linea dura di un Trump nemico giurato di tutto ciò che è in contrasto con i piani e i desiderata del suo amico Netanyahu.
Infine l’Italia, dove, con ogni probabilità, per consunzione di un sistema logoro e sempre più fragile e screditato, si andrà alle urne a giugno, con conseguente rinvio del referendum sul Jobs Act e una legge elettorale basata sulla sentenza della Consulta, la quale, a naso, boccerà il ballottaggio, i capilista bloccati e, forse, le candidature multiple, chiedendo poi alle forze politiche di armonizzare ciò che resta delle leggi elettorali per Camera e Senato e sperando che riescano, quanto meno, a confrontarsi civilmente, come auspicato dal presidente Mattarella nel suo bellissimo discorso di fine anno. A proposito, lasciatemi condividere con voi una riflessione su Mattarella. Più passa il tempo, più apprezzo quest’uomo sobrio e misurato: un arbitro capace di gestire con saggezza uno dei passaggi più delicati della nostra storia recente, evitando di esasperare ulteriormente un clima già surriscaldato e dando prova di buon senso e attenzione al malessere che si respira nel Paese, come testimoniato dal suo richiamo all’importanza di valorizzare i giovani e contrastare i seminatori d’odio e di violenza.
In conclusione, lo sport. Se il 2016 è stato l’anno di Usain Bolt, del cannibale Michael Phelps e dei nostri Gregorio Paltrinieri e Bebe Vio, oltre che di Cristiano Ronaldo, del Real Madrid di Zidane e del Portogallo di Fernando Santos, di Vettel in Formula 1, di Márquez nella Moto GP e della portentosa ginnasta americana Simone Biles, non c’è dubbio che quest’anno dispari, senza Olimpiadi né Mondiali né Europei, sarà da seguire soprattutto per quanto riguarda le vicende pallonare dei club, a cominciare dalla Champions League che riprende a febbraio, al pari dell’Europa League, con Juve, Napoli, Roma e Fiorentina a difendere i colori azzurri.
A naso, si preannuncia un anno intenso e decisivo quanto il precedente, di cui sarà senz’altro lo svolgimento, e al termine di questi dodici mesi sapremo se sarà ancora possibile coltivare il progetto europeo o se l’implosione del sogno unitario del dopoguerra sarà ormai inevitabile, se l’America avrà ancora il peso e la centralità di un tempo sullo scacchiere mondiale, se l’Orso russo sarà di nuovo protagonista a pieno titolo della scena planetaria, se i giovani leoni (Cina, India, Brasile e Sudafrica) avranno acquisito un’importanza ancora maggiore negli equilibri globali, se l’Italia sarà riuscita a riprendersi un po’, superando la crisi delle banche e l’emergenza lavoro che si preannunciano come le prove più difficili del 2017, e, a livello sportivo, se la Juve sarà riuscita a centrare l’obiettivo della Champions e Dybala quello del Pallone d’oro o se la sfida per la supremazia calcistica sarà stata ancora uno scontro fra Barcellona e Real e, sul piano dei singoli, fra i soliti Messi e Ronaldo.
Un anno tutto da vivere, sapendo fin d’ora che non ci annoieremo.