Si inchina, don Michele delle Foglie, davanti al dolore dei parenti, perché davanti alla morte siamo tutti uguali. Davanti alla morte, forse; ma in vita proprio no. Rocco Sollecito, boss della ‘ndrangheta di origini pugliesi, ucciso nel maggio scorso a Montreal, non è davvero “uguale”; e ci si può anche inchinare davanti al dolore dei parenti, e si celebri pure una messa in suo suffragio; ma affiggere un manifesto dove spiritualmente ci si “unisce ai familiari residenti i Canada e al figlio Franco venuti in visita a Grumo Appula”, e invitare “la comunità dei fedeli alla celebrazione della Santa Messa”, è un di più che don Michele si poteva risparmiare; e a differenza di quello che crede qualcosa gli si può dire. Faccia la sua messa di suffragio, ma senza trasformarla in evento.
Ucciso nel maggio scorso nell’ambito della lotta tra clan mafiosi che si combatte in Canada, Sollecito – che ha legami familiari anche in Puglia – secondo le intenzioni di don Michele doveva essere sepolto con un funerale imponente, degno della sua caratura. Il questore di Bari opportunamente dispose per una cerimonia strettamente privata, all’alba. Per don Michele una sorta di affronto, e ne fa fede la lettera di fuoco inviata al questore e all’arcivescovo.
Sentite un po’ cosa dice: “Al momento della morte di Sollecito promisi ai familiari che se fossero venuti in Puglia avrei celebrato una messa. Io ho il dovere di celebrare come pastore, non devono dire gli altri quando devo celebrare: le messe non onorano ma ricordano. Io sono un parroco di tutti quanti dei peccatori, mia nonna faceva celebrare le messe per tutti quanti. Questo signore è uno come tanti”. Questo “signore” non è uno come tanti”.
Facciamo un salto, nel tempo e nello spazio. Giugno di quest’anno; Montreal. In pieno giorno, due delitti, nel giro di poche ore. Vengono ammazzati Rocco Sollecito e Angelo D’Onofrio. Sollecito vittima di un agguato mentre è a bordo della sua automobile. D’Onofrio davanti all’ “Hillside Café”, abituale luogo di incontro di malavitosi italo-canadesi. Sollecito e D’Onofrio sono affiliati al potente clan dei Rizzuto, a sua volta legato ai narco-trafficanti internazionali Cuntrera-Caruana.
Montréal è il feudo dei Rizzuto, la cosiddetta “sesta famiglia”, gente che guarda fissa negli occhi i boss delle cinque “famiglie” di Manhattan, i Bonanno, i Lucchese, i Colombo, i Genovese e i Gambino, e con loro traffica cocaina ed eroina; i “cugini” di New York sono stati pesantemente bastonati. I canadesi pure loro hanno subito in questi anni pesanti colpi; ma ancora sono sulla breccia. Devono però fare i conti con una sanguinosa faida che risale al 1976, quando il giorno di San Valentino (giusto per rimanere fedeli alla tradizione) viene ucciso Pietro Sciara, uomo di fiducia di Paul Violi, legato ai Bonanno. Ne nasce una vera e propria guerra di mafia. Vengono uccisi Francesco Violi, fratello del boss e qualche mese dopo lo stesso Paul; infine Rocco, l’ultimo dei fratelli. Con quella morte si consacra l’egemonia dei Rizzuto nel traffico di droga, riciclaggio ed estorsione.
Le forze di polizia canadesi, italiane e statunitensi li prendono di mira, operano una serie di sequestri e arresti che praticamente mettono in ginocchio il clan; in parallelo, altri omicidi: nel dicembre 2009 viene ucciso Nick Rizzuto jr, figlio di Vito. Scompare nel nulla Paolo Renda, cognato del padrino Nicola. Poi è la volta di Agostino Cuntrera. Nel dicembre 2010 viene ucciso Nicola Rizzuto sr. Il figlio Vito, uscito dal carcere, organizza la riscossa del clan, e commissiona numerosi omicidi; anche lui muore: non vittima di un agguato, è stroncato da complicazioni polmonari.
A Montreal si costituisce una “commissione” di sei elementi che in qualche modo cerca di gestire i vari traffici. Un equilibrio più che instabile. Con l’uccisione di Sollecito e di D’Onofrio, in vita ne restano ormai solo due: Francesco Arcadi e Francesco Del Balso. Questa sistematica, implacabile eliminazione, fa ritenere che ci siano nuove leve mafiose che intendono sostituirsi negli “affari” alla cosiddetta Sesta Famiglia”. In particolare alcuni clan cosiddetti del “Siderno Group” legati alla ‘ndrangheta.
Ecco: questo il contesto. Questo il personaggio che per don Michele “è una persona come gli altri”. Sembra di tornare indietro agli anni del dopoguerra: quando un giovanissimo Leonardo Sciascia racconta di restare disgustato nel vedere che durante le processioni del Corpus Domini a Racalmuto, il suo paese, a sostenere le asticelle del baldacchino sono “uomini d’onore” e l’ombrellino liturgico è portato dal “padrino” del paese. Sembra di tornare ai tempi di quando Calogero Vizzini, uno dei grandi capi di Cosa Nostra, viene sepolto a Villalba, folla di boss arriva da ogni angolo dell’ isola; e un santino così lo ricorda: “Sagace, dinamico, mai stanco, diede benessere agli operai delle terre e delle zolfare operando il bene e si fece un nome assai apprezzato in Italia e fuori. E oggi, con la pace di Cristo, ricomposto nella maestà della morte, da tutti gli amici e dagli stessi avversari riceve l’ attestato più bello: fu un galantuomo”.
Un “santino” non molto diverso da quello diffuso a Riesi, in occasione dei funerali di Francesco Di Cristina, il capomafia del paese: “Dimostrò con le parole e con le opere che la mafia sua non fu delinquenza ma rispetto alle leggi dell’ onore”. Quando il figlio Giuseppe muore ammazzato, a Riesi si chiudono scuole e uffici pubblici, bar e trattorie, una bandiera listata a lutto sventola per tre giorni dal balcone della sezione della DC e si proclama il lutto cittadino. Perché quando si tratta di riti, le organizzazioni mafiose si somigliano un po’ tutte. Più il rito religioso è sfarzoso, più si dimostra ad affiliati e ad avversari la forza del clan. Funerali, ma anche matrimoni, battesimi, strumento e messaggio di potenza.
Vi ricordate quando Giovanni Paolo II, ad Agrigento, nella valle dei Templi, sferza, iroso e irato, i mafiosi? Quel “in nome di questo Cristo…dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio”. E il papa di oggi, nel 2014: “Coloro che perseguono la strada del male, così come sono i mafiosi…sono scomunicati!”. Per la prima volta dei pontefici si sono esposti così, e pronunciato la parola “scomunica”. Qualcuno lo ricordi a don Michele, quello del “è un signore come gli altri”.