Le trasmissioni radiotelevisive prodotte in uno Stato democratico sono chiamate a garantire imparzialità, completezza d’informazione e tutela dei bisogni presenti in una società.
Ecco il nucleo del problema: l’orizzonte di senso in cui si inscrivono i significati di «servizio» e di «pubblico» dipende direttamente dai valori di credibilità e di inclusività, e dal rapporto di fiducia tra la Rai e i suoi fruitori. Il dibattito intorno al servizio pubblico, inoltre, è a un bivio: per alcuni, i media privati che trattano temi di servizio pubblico dovrebbero equivalere alla Rai; per altri, questa ha esaurito il suo compito; altri ancora propongono di limitare il canone — che sarà pagato in bolletta — esclusivamente a quanti usufruiscono del servizio.
Al di là di posizioni legittime ma tutte parziali, per giungere a ridefinire la missione della Rai occorre riconoscere che il «cosa comunicare» non può più prescindere in termini qualitativi da questi altri due elementi: «come» e «a chi» comunicare. La formazione di una coscienza civile, da sempre riconosciuta nella tradizione della televisione pubblica, può essere garantita soltanto dalla Rai. Non si tratta, come pensano molti, di rifondare una «Rai insegnante» — il cui etimo ricorderebbe un «mettere dentro» —, bensì di costruire una «Rai educante», e ciò nel senso più alto del termine, del «tirare fuori» risorse, innovazioni e valori: dai cittadini e dalla società.
Il cambiamento riguarda un nuovo paradigma culturale, e non primariamente l’introduzione di nuove technicalities. Afferma Mario Tedeschini Lalli: «La Rai dovrà fare tanto giornalismo scritto, quanto audio e video, ma anche scoprire le potenzialità di strumenti di indagine e di narrazione digitali che non sono né testo scritto, né audio, né video. Potranno essere strumenti con una forte componente tecnica (progettare e realizzare database, applicazioni o piattaforme, ecc.) o con una componente che direi metodologica (crowdsourcing, interazione con altri agenti della rete comunicativa, ecc.)».
I programmi televisivi e radiofonici non scandiscono più i tempi della giornata: attraverso le applicazioni, il tempo, il modo e il luogo in cui vedere un programma li sceglie l’utente. Il digitale ha cambiato il modo in cui ci si informa e ha rimodellato i tempi sociali e le abitudini. In Occidente è cambiato il modo di guardare la Tv, e gli esperti parlano di «visione ubiqua»: un tipo di esperienza non più connessa a un solo dispositivo (la televisione), ma estesa allo schermo del cruscotto di un’auto, al telefono, al monitor del computer, al tablet, all’orologio. Se lo schermo classico lascia il posto a uno schermo «potenziato», allora la Tv, prima ancora di essere percepita come mezzo, sarà pensata come luogo ed ecosistema. Un ambiente che accolga esperienze di giornalismo virtuoso — anche al di fuori di quello della Rai —, che costruiscono democrazia e coesione; o che offra le proprie tecnologie e il proprio patrimonio alla collettività per aggregare testate, associazioni, Ong o semplici cittadini su progetti concreti.
La rete ha mutato l’antropologia del servizio pubblico fino a stravolgerne i significati tradizionali: «Da un punto di vista comunicativo, passare dalla centralità dell’attenzione a quella della fiducia significa fare propria la dimensione del dialogo». Perché questa trasformazione avvenga, sono necessarie condizioni di natura tecnologica, come le infrastrutture abilitanti e la riprogrammazione di competenze qualificate.
Accompagnare la trasformazione del servizio pubblico secondo uno stile preciso e rigoroso significa educare il proprio giornalismo a correggersi, rettificarsi e scusarsi; affinarlo nei contenuti e nei modi; vietare le forme di pubblicità occulta; liberare il giornalismo dall’essere megafono servile della politica; favorire il fatto che si parli di più e meglio di Europa; essere trasparenti nelle assunzioni, nelle nomine e nelle retribuzioni; premiare il merito; motivare i delusi; investire in cultura e non sprecare le risorse.
Innovarsi è soprattutto questione di sguardi e di linguaggio…
*Estratto del n. 3995 di Civiltà Cattolica