Alla fine ha preferito dire di no, ed è restato così a Palermo.
Il sostituto procuratore Nino Di Matteo ha scelto la strada della chiarezza di fronte all’ennesima “soluzione all’italiana” che il Consiglio Superiore della Magistratura gli aveva prospettato.
In passato, e per ben due volte, con motivazioni più o meno discutibili il Csm aveva respinto la richiesta di passaggio del Pm palermitano alla Direzione Nazionale Antimafia.
Ora, solo dopo l’ultimo allarme del Viminale e dietro sollecitazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il Csm sarebbe stato pronto a disporne il trasferimento d’urgenza a Roma, proprio alla Dna, ma soltanto per motivi di sicurezza e non per meriti professionali.
Siamo sinceri: quanti altri avrebbero accettato, vista la pesante situazione venutasi a creare per l’incolumità personale e dei propri cari?
Tutti, nessuno escluso? Forse sì, forse no.
Comunque la pensiate, Di Matteo ha ribadito di voler accettare una nomina alla Procura nazionale antimafia soltanto in ragione di una valutazione di merito del suo curriculum e dell’attività svolta in venticinque anni di servitore dello Stato. Inequivocabile è stata la dichiarazione rilasciata in esito all’audizione presso la terza commissione dell’organo di autogoverno della magistratura: «Accettare un trasferimento d’ufficio connesso esclusivamente a ragioni di sicurezza sarebbe stato un segnale di resa personale e istituzionale che non intendo dare».
E allora, in attesa di vedere cosa deciderà il Csm quando Di Matteo invierà domanda per concorrere nuovamente alla Procura nazionale antimafia, proviamo a ragionare sulle sue parole e facciamoci una domanda essenziale.
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