Il Comitato per il NO presieduto da Alessandro Pace ha riscontri straordinari sui social. Parliamo, ad esempio, di Facebook nell’ultimo mese: 47 milioni di visualizzazioni dei contenuti (11 i milioni di persone che vi si sono soffermati) e un milione i navigatori che hanno dialogato e interagito. Non parliamo, poi, delle elezioni degli Stati Uniti, dove si è esercitata la nuova potente versione dell’uso della rete, vale a dire l’utilizzo dei dati per seguire ed influenzare giorno per giorno il clima di opinione. Tuttavia, se il potere dei media classici sta cedendo il passo all’ambiente digitale, gli ultimi colpi sferrati dalla vecchia regina usurpata sono ancora più terribili. E’ vero che, da quando è scattata (dal 28 settembre, data della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale della data della consultazione) la par condicio, apparentemente le percentuali del Sì e del No si sono avvicinate. Ma nel computo non si calcola il tempo abnorme utilizzato dal Governo e, segnatamente, dal Presidente del consiglio. Se si leggono con cura le 101 pagine (!) dei dati sulle presenze politiche e istituzionali pubblicate sul sito dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni –periodo tra il 7 e il 30 ottobre scorsi- appare evidente l’inganno. Il Governo non solo gioca la partita, ma è l’attaccante bulimico e tuttofare.
Eppure, Pietro Calamandrei evocava la doverosa estraneità dell’esecutivo dai lavori del’Assemblea costituente. Ecco, proprio come Renzi, che si appropria di tempi di parola e di notizia altissimi. In particolare, i primi viaggiano dal 20,29% dei telegiornali della Rai, al 21,23% di Mediaset; i secondi sono rispettivamente il 31,73% del servizio pubblico e il 34% dei canali di Berlusconi. Un po’ di meno gli altri. Comunque, si vede come la legge sia tranquillamente aggirata attraverso l’espediente della campagna diretta del Presidente del consiglio. Che siano la manovra di bilancio, o la Leopolda, o la tragedia del terremoto o persino gli Stati Uniti, ogni discorso dell’aspirante premier “assoluto” è di fatto un lungo spot. Il voto referendario è espresso esplicitamente o nel sottotesto: sempre. La norma del 2000 così neutralizzata è resa, poi, grottesca da talune interpretazioni a dir poco burocratiche, che neppure l’azzeccagarbugli avrebbe immaginato. Ad esempio. C’è un’incredibile circolare datata 5 ottobre in cui si fa obbligo di astensione dalle prestazioni a dipendenti e collaboratori che abbiano aderito a comitati referendari. Circolare a sua volta interpretata con sacro zelo laddove ha causato l’abolizione di programmi che prevedevano la presenza di chi si era limitato ad aderire a qualche appello. Come c’è la grottesca richiesta dei sostenitori del Sì all’Agcom di conteggiare nelle presenze politiche i giornalisti che si siano espressi per il No, a partire da Marco Travaglio.
I richiami della stessa Agcom a Rai, Mediaset Sky e La7 per l’eccessiva esposizione del Governo sono rimasti lettera morta, se è vero che è stata inviato anche un’ altra lettera in queste ore. Si avvicina il periodo caldissimo della campagna elettorale, quella dove la vecchia televisione generalista mantiene un inesorabile primato. C’è un giudice a Berlino?
PS: che succede sulla Rai? Tagli previsti per il 2017, incertezze sul rinnovo della concessione già scaduta, inserimento dell’azienda nella lista delle aziende della pubblica amministrazione tarpandone le capacità concorrenziali. A proposito di Usa: si vuole trasformare la Rai in una “Pbs”, la televisione pubblica, autorevole ma minore?
Fonte: “Il Manifesto”