Sta per concludersi la peggior campagna elettorale della storia americana. Non è un caso, infatti, che milioni di cittadini di quel Paese, elettori e non, siano disgustati dal confronto volgare, violento e a tratti insopportabile fra un soggetto palesemente inadeguato a guidare anche solo un condominio e una ex first lady, ex segretario di Stato senz’altro preparata e competente ma, al tempo stesso, estremamente antipatica e con troppi lati oscuri e scheletri nell’armadio per risultare credibile agli occhi della maggior parte delle persone e, in particolare, dei giovani e dei ceti sociali più deboli.
Perché è inutile ripercorrere per l’ennesima volta la lunga carriera di Lady Terza via: nata repubblicana, a sostegno di uno dei peggiori candidati del GOP come Barry Goldwater, divenne poi democratica in seguito all’incontro che le ha cambiato la vita con Bill Clinton, rimanendo tuttavia centrista e conservatrice sulla maggior parte dei temi, comprese le nozze gay su cui, di recente, ha avuto un apprezzabile ripensamento, sostenitrice delle politiche ultra-liberiste e dannosissime di suo marito nei ruggenti anni Novanta, favorevole alla guerra in Iraq di George W. Bush, finanziata, appoggiata e coccolata da lobby, banche e poteri finanziari responsabili della crisi del 2008, non certo inappuntabile nella conduzione della politica estera del proprio Paese e, infine, incappando in una brutta storia di mail che non ha fatto altro che rivelare, per l’ennesima volta, le caratteristiche più negative del proprio carattere.
Senza contare che questa donna, emblematica di una precisa concezione del potere e della ricchezza, intrappolata nei fasti ormai anacronistici dell'”American dream”, incapace di comprendere le svolte della nazione e le istanze delle giovani generazioni, al punto che come vice ha scelto un ultra-conservatore della Virginia, tale Tim Kaine, anziché lo stesso Sanders o la senatrice kennediana del Massachussets, Elizabeth Warren, questa donna ha ripetuto stancamente una litania ormai fastidiosa alle orecchie di chiunque, fino a quando non si è resa conto che l’anziano senatore del Vermont che aveva avuto il coraggio di sfidarla e di tenerle orgogliosamente testa ben oltre il SuperTuesday stava dilagando; a quel punto, come già altre volte nella sua vita, la Clinton non ha fatto altro che indossare una maschera, quella della progressista, attenta ai bisogni delle stesse classi sociali di cui non si occupava ormai da anni, riuscendo a strappare la nomination democratica grazie alla ricchissima California, patria della Silicon Valley e delle nuove tecnologie, liberista con la pelle degli altri e olivettiana in casa propria, in gran parte ipocrita proprio come Hillary e come quel Ronald Reagan che, dopo una modesta carriera da attore, proprio da qui partì alla conquista del Paese, con la sua barbara rivoluzione conservatrice che ha segnato un trentennio e condotto l’Occidente nel baratro.
Se a ciò aggiungiamo la natura intrinsecamente guerrafondaia, la visione dei rapporti internazionali tipici della Dottrina Truman e lo scontro frontale portato avanti con somma incoscienza nei confronti di Putin, abbiamo il quadro completo di una figura che non scalda i cuori di nessuno, non convince, non piace e si aggrappa disperatamente al fascino e al carisma dei coniugi Obama, che intimamente detesta, a cominciare da Michelle, e al pericolo mortale costituito dal suo rivale per tentare di convincere la maggior parte degli indecisi a venire a votare e ad accordarle il proprio sostegno.
Il guaio, povera Hillary, è che quando uno sente parlare Sanders o uno degli Obama vede esattamente l’America che vorrebbe, il progetto che ha votato in passato e quello che avrebbe votato volentieri questa volta; il che non costituisce affatto un punto a suo favore, in quanto i voti sono assai difficili da trasferire e, per quanto l’anziano Bernie si sforzi di convincere i “millennials” che escono dalle università, magari anche da atenei prestigiosi, e non trovano un lavoro, se non precario e pagato malissimo, che questa donna che va in giro vestita con abiti da dodicimila dollari sia una di loro, l’impresa è pressoché impossibile.
Come è impossibile per Barack e Michelle infonderle anche solo metà del loro fascino, del loro desiderio di riscossa, del loro essere interpreti di una minoranza discriminata che, unendosi ad altre minoranze, diviene infine maggioranza: il culmine di due biografie straordinarie, fatte di sacrifici, speranze, difficoltà, ostacoli e di un amore sincero, inossidabile, capace di resistere a tutto e di infrangere ogni barriera grazie alla propria spontanea autenticità.
In quella storia, in quegli sguardi, in quella convinzione un giovane, un precario, una donna discriminata sul lavoro, un nero costretto a fare i conti con la crudeltà di una polizia sull’orlo di una crisi di nervi possono riconoscersi e trovare un’identità comune; nell’epopea unilaterale e bagnata da fiumi di denaro dei coniugi Clinton no. Nel nostro piccolo, lo abbiamo scritto mesi fa: solo una Clinton che avesse fatto interamente proprio il programma di Sanders avrebbe potuto sbaragliare l’impresentabile Trump; ha fatto l’esatto opposto e ne sta pagando le conseguenze, con l’auspicio che non sia costrette a pagarle anche il resto del mondo a causa dell’affermazione di questo magnate, simbolo dell’America peggiore, ben al di là dell’arroganza e della prepotenza dei Bush.
Donald Trump, infatti, incarna l’America dei predoni, dell’avanzare a suon di cazzotti, della competizione sfrenata, della ferocia elevata a virtù, dell’esaltazione di una mascolinità malata e foriera di gaffe e totale mancanza di rispetto nei confronti delle donne. È un misto dell’America descritta da Sergio Leone in “C’era una volta in America” e di quella denunciata in “Wall Street” da Oliver Stone: una tragica miscela di tracotanza e speculazione, di irresponsabilità e di ferma volontà di schiacciare il prossimo, con l’aggiunta della Trump Tower, moderna piramide d’Egitto, esaltazione della propria potenza, della propria ricchezza e del proprio essere un parvenu, ben accolto da una società del benessere ormai moralmente degenerata e da un capitalismo straccione che ha calpestato ogni diritto per naufragare, infine, nel mare della propria vanità.
Eppure Trump, nonostante costituisca la quintessenza dell’establishment, nonostante non abbia alcuna attenzione nei confronti dei diritti degli ultimi, nonostante riesca nell’impresa di essere ancora più mendace della Clinton, nonostante denunci accordi come il NAFTA che egli stesso, ovviamente, avrebbe a suo tempo sottoscritto, è diventato, in quest’epoca buia e caratterizzata da un malessere sociale senza precedenti e da una mancanza di prospettive per il futuro che fa il resto, il paladino di quel ceto medio impoverito che si è visto scivolare da una condizione di relativa stabilità a uno stato di paura e di incertezza.
Trump, in poche parole, altro non è che il rigurgito rabbioso delle viscere dell’America profonda, la quale non ha accettato la Dottrina Obama nè la sua visione del mondo come un insieme di speranze e di complessità in cammino anziché come una giungla o un ring nel quale a prevalere è chi picchia più forte e compie le maggiori atrocità.
È la reazione scomposta e disumana di chi non vuole comprendere o non riesce a tollerare che gli Stati Uniti, nel Ventunesimo secolo, potranno essere senz’altro una nazione di primo piano nel contesto di un mondo policentrico ma non saranno più il paese egemone, il leader incontrastato, la luce che impronta di sé gli altri popoli, che non vivranno più in quella bolla di carattere quasi biblico, e francamente ormai risibile, del “destino manifesto” e della volontà di potenza che si trasforma in azione concreta, prevalendo su qualunque avversario.
Trump è l’America dei muri, delle chiusure, della grettezza, dell’isolazionismo, delle privatizzazioni e dell’anti-statalismo selvaggio, dell’esaltazione delle disuguaglianze, della scorrettezza e dell’evasione fiscale; un’America anacronistica e avvelenata dal proprio rifiuto del domani che, fondamentalmente, non accetta la contemporaneità e vorrebbe rinchiudere il mondo intero in una gabbia di rancori ed esibizioni muscolari variamente assortite.
Eppure, benché Trump sia Trump, nel contesto disperato in cui versa quest’Occidente senza utopie, incapace di sognare e anche solo di credere in se stesso, la mistica dell’odio che dilaga ovunque potrebbe persino condurlo alla Casa Bianca, determinando la nascita di una sorta di Trump’s movement, al di fuori dei canali ufficiali del GOP, nonché l’affermazione dell’anti-politica e del populismo a livello planetario, devastando quel briciolo di cultura politica che ancora è rimasto e i soggetti che ne sono stati per decenni la casa.
Comunque vada a finire, per i prossimi quattro anni, rimpiangeremo Obama. E non è detto che democratici e repubblicani, destra e sinistra riescano, nel frattempo, a livello mondiale, a ricomporsi e a darsi nuovamente un senso, nel bel mezzo di un pianeta dominato dalla confusione, da furie omicide reciproche e da un’assenza di pensiero che si riverbera in ogni ambito della società, rendendoci sempre più degli automi al servizio di una sorta di Grande Fratello globale, privo di ogni umanità.