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Informazione. Claudio Fava: “Cambiare legge su diffamazione e garantire chi fa giornalismo di qualità”

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Storie di editori-imprenditori che impongono il silenzio. Storie di giornalisti che accettano di piegare la verità dei fatti per costruire carriere. Cronisti di straordinario valore civile, minacciati, precari e isolati, che continuano a fare un giornalismo di qualità. E’ un racconto fatto di luci e ombre quello narrato dal giornalista, politico e scrittore Claudio Fava, vice presidente della Commissione parlamentare antimafia, nel suo ultimo libro Comprati e venduti. Storie di giornalisti, editori, padrini, padroni, in cui la memoria dei cronisti uccisi dalle mafie dialoga con le vite dei colleghi nel mirino dei clan. Il  libro affonda le radici nella vita e nell’esperienza di Fava e muove i passi dalla Relazione sullo stato dell’informazione e sulla condizione dei giornalisti minacciati dalle mafie approvata nell’agosto del 2015. Un’analisi senza precedenti, curata da Fava, che è la fotografia di un Paese e non soltanto di un mestiere. Un mondo  – come spiega l’autore intervistato da Articolo21 – “dove non sono tutti eroi, né tutte vittime, né tutti carnefici”.

“Scrivere su chi scrive di mafia è un viaggio in terra straniera” – si legge nelle prime pagine del suo libro. Perché?

Scrivere di mafia per un giornalista è essere straniero, forestiero, è muoversi in luoghi sconosciuti. Si è stranieri rispetto alle storie che raccontiamo. Ci si muove in territori ostili. Le cose che si vedono sono difficili da raccontare, da metabolizzare. Scrivere su chi scrive di mafia vuol dire raccontare in quanti modi questa professione può declinare se stesso su questo terreno: c’è chi tiene la schiena dritta, spesso giovane, senza un contratto e pagato pochi euro ad articolo e chi la piega a compasso perché è utile per organizzare carriere, per rispondere “obbedisco” a chi ti chiede obbedienza.

Chi ha incontrato in questo viaggio?

In questo viaggio ho incontrato un giornalismo di battaglia e di frontiera ma ho incontrato anche una idea di giornalismo compiaciuto e compiacente che ha scelto di scendere a patti. Una informazione che ha preferito la via della discrezione, del silenzio, della reticenza. Questo è un territorio in cui non sono tutti eroi, né tutte vittime, né tutti carnefici. Bisogna, dunque, andare incontro alle singole storie e raccontarle, una ad una, perché sono vicende tutte diverse fra loro. Quello intrapreso con la Commissione antimafia è un viaggio che racconta il chiaroscuro degli ultimi trent’anni del giornalismo italiano di cui questo libro offre alcuni titoli, alcuni elementi, alcune storie.

All’interno del racconto si delineano anche alcune responsabilità. Chi comanda nel mondo dell’informazione?

Se è vero che gli editori comandano è vero che molti giornalisti obbediscono. Alcune delle storie che ho raccontato nel corso degli anni, sia nella relazione della Commissione antimafia, sia nella mia lunga esperienza ripresa e riportata in questo libro, sono storie di editori con interessi molto concreti, forti, che hanno bisogno di costruire intorno a loro e ai loro affari, un’area di rispetto e di silenzio. Ma anche storie di giornalisti che hanno accettato di recitare questa parte. I padroni fanno i padroni ma chi – concretamente –  fa questo mestiere  poi decide di omettere, di aggiungere, di usare la verità piegandola a proprio piacimento. Quella degli ultimi decenni è la cronaca di una generazione di giornalisti di straordinario valore civile ma anche dei loro colleghi che hanno preferito indossare gli abiti della prudenza, degli ossequi, scegliendo di essere congeniali ai propri padroni e ai propri editori. E spesso ha scelto di tacere o parlar d’altro proprio chi era ben pagato, garantito dalla qualità dei propri contratti. Mentre a lato, continuavano a fare il loro mestiere i giornalisti cosiddetti “abusivi”, senza tesserino, senza un contratto di lavoro in tasca, senza editori che li proteggessero, né una comunità che ne raccogliesse l’esempio. Si tratta di cronisti che – come scrivo nel libro –  continuano a fare informazione, con quel senso elementare della decenza che è alla base di questo mestiere.

Nel libro dedica ampio spazio alle vicende dell’editore catanese Ciancio San Filippo. Cosa lo rende un caso singolare nella storia del giornalismo italiano?

Il suo è un caso significativo perché per tantissimi anni il suo giornale ha operato in regime di monopolio assoluto, tranne brevi interferenze. Lavorare da monopolisti nel settore dell’informazione dà il vantaggio di governare il mercato ma lo svantaggio di non essere costretti a fare buon giornalismo. Un’altra patologia che contraddistingue questo caso è che – anche qui con brevi interruzioni – abbiamo avuto un direttore responsabile che è anche editore del giornale. Ovvero, sono state tenute insieme funzioni che dovrebbero misurarsi, essere invece in continuo confronto fra loro. E anche in questo caso a risentirne è stata la qualità dell’informazione. Infine, altri due elementi. Ciancio San Filippo fa l’editore ma il suo mestiere è quello dell’imprenditore in tutti i settori in cui ci sia la possibilità di ottenere rientri in termini di profitto. Il giornale è stato uno strumento di pressione politica, un mezzo per garantire che il mercato di Ciancio si allargasse. Alcuni casi sono entrati a far parte del processo giudiziario in corso su Mario Ciancio San Filippo. Il quarto elemento di patologia è proprio che accanto a tutto questo abbiamo un editore che in questo momento è processato per concorso esterno in associazione mafiosa. Se mettiamo insieme questi quattro elementi ci rendiamo conto di quale siano state le costrizioni e le umiliazioni che il buon giornalismo ha dovuto subire passando attraverso le maglie strettissime di questa serie di contraddizioni.

L’Osservatorio “Ossigeno” in collaborazione con il Ministero della Giustizia ha da poco fornito dati allarmanti sulla professione giornalistica. Fra gli altri: in Italia 155 giornalisti ogni anno sono condannati a pene detentive. In Senato è fermo un testo di legge sulla diffamazione, qual è il suo parere in merito?

Quel testo di legge va per prima cosa schiodato da questa archiviazione di fatto che dura da un anno e mezzo. Occorrerebbe che il Presidente del Senato, il Presidente della commissione Giustizia e i partiti della maggioranza, decidessero di rimetterlo all’ordine del giorno della Commissione. All’interno del testo vanno cambiate alcune cose: è vero che non è più prevista la pena del carcere per i giornalisti ma c’è stato un aumento significativo delle pene pecuniarie che rischiano di produrre un effetto ancor più controproducente. Mancano inoltre, elementi deterrenti rispetto alla querela temeraria e alle azioni civili temerarie. Su questo occorrerebbe mutuare l’esperienza che è stata fatta all’estero, in molti Paesi, per esempio con un deposito cauzionale di una percentuale sulla richiesta fatta in tribunale.

Il libro termina con una nota positiva: “la determinazione con cui una nuova generazione di giornalisti ha scelto di non piegare la schiena”nonostante precarietà e pericoli. In Commissione antimafia avete ascoltato anche i vertici della categoria, dall’Ordine dei giornalisti al Sindacato. Che idea si è fatto, come si riorganizza collettivamente la forza e il talento di questa generazione?

Io credo si debba disancorare la concezione del mestiere del giornalista da troppe zavorre formali. Giornalista è chi fa giornalismo, chi informa, chi utilizza gli strumenti e le regole dell’informazione. Che abbia o meno un tesserino in tasca, che sia o meno un professionista ai sensi della legge attuale. Nel nostro Paese non è ancora così: quelli che lo fanno senza essere garantiti da un riconoscimento professionale o da un contratto di lavoro versano in condizioni di estrema debolezza e precarietà. E la precarietà è una situazione che rende fragili di fronte alle aggressioni e alle minacce. Dovremmo immaginare di normare sul piano sindacale, sul piano contrattuale, sul piano del riconoscimento professionale, la figura dei giornalisti freelance. Forse dovremmo andare verso l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti come è avvenuto in molti Paesi, perché si possa finalmente affermare che è giornalista chi fa il giornalista, chi vive di giornalismo, chi interpreta questo mestiere con le regole di attenzione, scrupolo e decenza, che fanno parte del giornalismo. Se andiamo a vedere i cronisti minacciati o ammazzati, scopriamo che alcuni di loro non erano formalmente giornalisti: non lo era Peppino Impastato e così anche per Mauro Rostagno e Beppe Alfano. La verità è che – nei fatti –  lo erano, altrimenti non avrebbero rischiato la vita e non sarebbero stati uccisi. Sono stati giudicati giornalisti bravi e pericolosi da quelli che ce l’avevano con loro. Oggi non sono ufficialmente giornalisti molti di coloro che, pesantemente minacciati, sono costretti a vivere sotto scorta. Dovremmo, dunque, rendere questa professione meno paludata, basandoci sulla qualità del giornalismo che viene espresso e non soltanto sui titoli che vengono proposti.


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