Fra le migliaia di scosse che ho sentito ne ricordo soprattutto una, a Cesi di notte. Stavamo all’aperto e mentre crollavano le case davanti a noi la terra si muoveva sotto i nostri piedi. Non c’era da scappare, ci sentivamo inermi di fronte alla forza della natura. Ed è questo l’aspetto che atterrisce, non c’è sfida, inutile scappare. Quando arriva la botta c’è solo da aspettare che finisca e ti sembra interminabile, perché sai che più va avanti e più può venir giù tutto. Ai corsi di sopravvivenza insegnano la “via di fuga” ma dove scappi se già stai in strada? Ho sentito “schicchere” in auto e mi sembrava che fosse scoppiata una gomma, le ho sentite in casa e non riuscivo ad alzarmi dal letto ma Cesi ce l’ho ancora dentro, dopo anni. Ci pensavo in questi giorni perché la zona è sempre la stessa e i borghi che stanno sparendo stanno proprio lì. Luoghi che ho nel cuore dove ho passato momenti felici ma anche tragici. Come dimenticare le vecchie marchigiane che durante il terremoto continuavano a fare la “sfoja” per quei poveri “fjoli” che portavano aiuto. Frammenti confusi fra gioie e paure. Le soste a Visso per il ciauscolo, a Castelluccio per le lenticchie, a Preci per un saluto al mio amico Baldoni che è sepolto lì. Ma anche il campanile di Nocera Umbra che ho visto cedere piano piano, il terrore allo stadio di Gualdo Tadino fracassato dal rumore sordo delle tribune, le case di latte (come io chiamo i container) a Colfiorito. E poi l’esodo, che resta l’aspetto più triste, con la gente che torna in casa rischiando la vita per recuperare almeno la memoria, magari le foto di nozze o quelle di un figlio morto in guerra. Pensando alla tragedia di oggi i ricordi si affollano, confusi. Dalla vita in tenda ad Ancona, con mia nonna (il mio angelo custode) a proteggermi quando tornavo dal giornale, ai sei mesi passati tra Marche e Umbria, devastate. Fino all’Aquila, vivendo l’angoscia di una città ferita. Ho vissuto da terremotato ma non è niente rispetto a chi ha perso tutto. E piango per le vittime, ma anche per chi resta senza (spesso) più niente.
Ho imparato da tante esperienze che c’è ben poco da fare. Sì, piccole accortezze per salvarsi la vita. Inutile scappare, non farsi prendere dal panico, perché le trombe delle scale sono le prime a crollare e quando sei fuori possono essere fatali le macerie. Sembra facile. Decisiva resta la prevenzione: costruire case in grado di reggere l’urto, accompagnandolo invece di scontrarsi. Almeno per ridurre il numero delle vittime.
Il terremoto è una tragedia perché ci strappa dalla quotidianità. Pensate ad Amatrice, pensate a quei borghi che sono il patrimonio di un’Italia bellissima e fragilissima. Non date retta: non c’è modo di prevederlo. La terra è in continuo movimento, segno che è viva, microscosse ci sono sempre, ma nessuno può sapere quando un’energia superiore si svilupperà. Ed è criminale chi esaspera la paura con annunci di altri disastri. Ci saranno sicuramente, lo insegna la storia della geologia, ma un altro evento disastroso può capitare fra pochi minuti o fra anni o addirittura fra secoli. L’aspetto più terrificante, che da l’idea di come non possiamo fare niente se non ricostruire con oculatezza, viene da quelle spaccature sulle montagne. In questi giorni stanno mostrando quella terribile fenditura sul monte Vettore, fa venire i brividi, personalmente ricordo di aver sorvolato la faglia di Sant’Andrea: terrificante, la prova che la California si staccherà dalla terraferma. E prima o poi, lo sanno tutti, ci sarà il “big one”. Di quel terremoto a San Francisco conservo una maglietta con su scritto “I’m survivor”, sono un sopravvissuto, una maniera tutta americana per esorcizzare la paura. Come l’effetto ondulatorio ricostruito agli Universal studios di Los Angeles, dove la gente paga per tremare.
Nessuno ha avuto voglia invece di “giocare” nel già poverissimo Kashmir, o a Bam, la città d’arte iraniana rasa al suolo. Capisco la paura, ho rispetto di tutti, ma una considerazione finale, a margine, devo pur farla. E come al solito riguarda i social, delizia e soprattutto croce dei nostri tempi sciagurati, dove tutto è azzerato. Mai come stavolta l’Italia è stata unita perché le scosse le abbiamo sentite tutti, da Bolzano alla Puglia, ma non è possibile non fare distinzioni fra chi sta a ridosso dell’epicentro e chi, a centinaia di chilometri, fa il video di un lampadario tremolante o un selfie “pronto a scappare”. Almeno un po’ di rispetto per chi ha perso casa, affetti e futuro.